Enrico Deaglio



Enrico Deaglio
di Marinella Saiu

Un viaggio in pulmino alla ricerca della nuova realtà del Nord, quello della ricchezza, dell’immigrazione, dell’alluvione e del terremoto politico. Questi e altri sono gli argomenti che Enrico Deaglio tratta nelle quattro puntate di «Vento del Nord»

«Vento del Nord», è il titolo del programma. Cosa ha portato nel nostro Paese e dove ci sta portando questo vento?

È un vento che soffia da un po’ di tempo. Se prima era solo una brezza, adesso è un vento impetuoso che mostra molta insofferenza nei confronti di Roma, un’enorme ricchezza, un modello di vita e di lavoro radicalmente diverso da quello che conoscevamo, ma anche una grande ansia. È un vento che ha portato un po’ di America: un individualismo molto forte, l’idea che chiunque ce la possa fare. Non si riconosce più un padrone e il pensiero comune è che ognuno possa aprire una propria attività senza più sottomissioni. È un vento molto materiale, di soldi e di traffico in tutti i sensi. È anche la ricerca di un leader politico, di pulsioni verso la secessione, ma nello stesso tempo di fascino per l’Europa che dà maggiori possibilità di mercato. Il triangolo Piemonte-Lombardia-Veneto ha il più alto reddito del pianeta, più ricco dell’area di Londra e di Rotterdam, eppure sono tutti molto lamentosi, ansiosi, tristi.

Di cosa si lamentano?

Sono stressati dalla vita e dal lavoro. Si angosciano perché questa ricchezza potrebbe non essere solida. Si preoccupano degli immigrati che gli stanno cambiando il paesaggio in maniera totale. Eppure sanno benissimo che senza gli immigrati tutto questo non sarebbe possibile.

Lei afferma che il Nord va a una velocità doppia o addirittura tripla rispetto al resto del Paese. Cosa significa in concreto?

È un fatto storico che le grandi invenzioni e i grandi cambiamenti sono avvenuti al nord. In questo momento sicuramente hanno preso un balzo fortissimo le regioni orientali (Veneto, Friuli) in un sistema di produzione che è dieci volte più veloce, più ricco, più soddisfacente del resto dell’Italia. In Veneto, fino a 30 anni fa, la gente emigrava per miseria, adesso è una regione piena di fabbriche, traffico, aziende create dagli emigranti stessi, quando sono tornati, o dai loro figli. Con un sistema di produzione della ricchezza diverso da quello di una volta. È gente che si autosfrutta, lavora tantissimo e che non sa bene cosa fare della propria ricchezza. E questo è un altro problema. È tutto in ebollizione e circolano davvero le idee più strane. L’altra regione che va a grande velocità è la Lombardia, con Milano che rappresenta la finanza, la new economy, la borsa. Il Piemonte invece è totalmente diverso e credo stia affrontando il tramonto, lento, anche bello, di un sistema di produzione durato 100 anni. Parlo della Fiat e della famiglia Agnelli che erano il punto centrale del Piemonte.

Secondo lei, e non solo, il Nord senza gli immigrati si fermerebbe. Come spiega allora l’intolleranza verso di loro?

È una questione complessa. Prima di tutto noi italiani non abbiamo nessuna tradizione ed educazione in questo senso. Il fatto che siamo un popolo di emigranti non aiuta particolarmente: nel sentire comune chi è dovuto andar via era un fallito. Non si parla volentieri nemmeno di quelli che sono tornati ricchi. C’è, però, molta ipocrisia. Io, che sono torinese, ricordo che da piccolo il problema si poneva con gli emigranti del Sud anche se, ovviamente, la Fiat funzionava solo perché c’erano loro. Nello stesso tempo Torino era invasa da cartelli con su scritto: «Non si affitta ai meridionali». C’è, però, una paura più sostanziale e profonda legata al fatto che si immagina che questo nostro paese fra 20 anni non sarà più nostro. È su questo punto che la Lega fa leva quando dice che arrivano gli islamici, che la domenica non sarà più festa, che ci taglieranno la gola. Se si aggiunge che nel nostro paese non nascono più bambini italiani, la paura diventa panico e il sentimento di decadenza è fortissimo.

La schiavitù della prostituzione. Quanta malafede c’è negli italiani per non volerla vedere e in qualche modo parteciparvi?

Totale. Nell’ultima puntata di «Vento del Nord» si racconta la storia di una prostituta nigeriana, uccisa in un piccolo centro vicino a Milano. Tutta la comunità nigeriana si è raccolta per il suo funerale, arrivando da tutta l’Italia. È stata una cerimonia toccante e soprattutto inaspettata. La prostituzione italiana praticamente non esiste quasi più, e comunque ha caratteristiche molto diverse da quella straniera: non più sulle strade, prezzi alti, adeguata insomma a un paese ricco. La prostituzione africana, brasiliana e dell’Est ha abbassato moltissimo i prezzi (potremmo definirli popolari) e i lombardi o veneti preferiscono le straniere perché costano poco. Meglio 50 che 150. E poco importa se dietro ci sono botte, vendita, schiavitù. Da non sottovalutare è anche il razzismo e il senso di superiorità che fa pensare loro: «Tanto è una negra!». Ma se il sistema orientale è industriale, quello albanese e nigeriano riduce alla schiavitù: prima di affrancarsi devono sborsare una quantità di denaro calcolata intorno ai due anni di lavoro da pagare ai protettori o alle cosiddette maman, che ricorrono a una serie di riti e tabù (ciocche di capelli o altro). Alla fine, però, riescono ad emanciparsi.

Perché il Sud non riesce a seguire l’onda del Nord?

Perché non vuole. Il centro Italia è un regime quasi perfetto di comunità, di strutture, i cui cambiamenti sono molto guidati e lenti. La lentezza del vivere, e anche delle ambizioni, è molto minore rispetto al Nord. E il Sud è l’immobilità totale. Unica eccezione: Renato Soru a Cagliari.

Lei sostiene che da quest’esperienza avrebbe imparato molto. Cosa?

Che siamo sull’orlo di importanti cambiamenti che possono andare in un senso o nell’altro. Il bisogno, per esempio, di sicurezza, di ordine, di pulizia e di un leader forte può portare una seria ondata autoritaria. Che sia Haider o qualcun altro poco importa, il filone, però, è quello. Un altro punto è che il centrosinistra nel Nord ha molto poco da dire, se non le stesse parole del passato: garantire quello che è stato finora, un sistema di solidarietà. Certo è che sono in difficoltà di fronte alle spinte attuali del Nord. Un’altra cosa importante è che bisognerà pensare, al più presto, al diritto di voto per gli immigrati, per non correre il rischio di una specie di apartheid. Se non ci sarà una rappresentanza con la possibilità di dire la propria c’è il rischio di trovarci in un doppio paese. In questo momento al Nord stanno prendendo forma sistemi che erano propri del Sud, per esempio il caporalato, nei confronti degli immigrati che non hanno nessuna possibilità di controbattere. Perciò è importante che le varie comunità abbiano diritto ad essere rappresentati.

Del resto pagano le tasse in Italia…

Esatto, e anche le nostre pensioni.

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