Homo Cyberneticus



Chi di voi ha letto il racconto di Bruce Bethke «Cyberpunk»? Sebbene non sia stato il primo del suo genere, quel racconto ha dato inizio a un nuovo sottogenere nel campo della narrativa fantastica che ha preso il nome proprio da quella pubblicazione. Forse uno degli esponenti più famosi di questo genere letterario è William Ford Gibson, autore di svariati racconti e romanzi far cui «Neuromante» e il famosissimo «Johnny Mnemonic» dal quale è anche stato tratto un film di Robert Longo con Keanu Reeves.

Tutte queste opere hanno una cosa in comune e cioè l’ibridazione di genere. Questa ibridazione avviene su due piani, uno più propriamente psichico e l’altro tecnologico. Gli elementi chiave sono quindi da una parte le droghe sintetiche e l’alterazione delle percezioni sensoriali e della coscienza, ovvero la psichedelia, dall’altra gli innesti di componenti meccaniche ed elettroniche in un organismo vivente, per lo più nel corpo umano, ed il suo conseguente potenziamento.

Tutto questo, dalla prima metà degli anni ’80 del XX secolo fino ai giorni nostri, dà luogo a opere cinematografiche conosciute anche dal grande pubblico, come ad esempio «Blade Runner» (1982) di Riddley Scott, «Wargames» (1983) di John Badham, «The Terminator» (1984) di James Cameron, «RoboCop» (1987) di Paul Verhoeven, «The Lawnmower Man – Il tagliaerbe» (1992) di Brett Leonard, «Johnny Mnemonic» (1995) di Robert Longo, «Nirvana» (1997) di Gabriele Salvatores, «The Matrix» (1999) dei fratelli Wachowski ed «Equilibrium» (2002) di Kurt Wimmer.

Un aspetto interessante di questa letteratura è che i personaggi che alterano le proprie capacità psichiche e fisiche grazie a chimica, meccanica, nanotecnologie ed elettronica, lo fanno per il desiderio di migliorarsi, di evolvere, di andare oltre i loro limiti. In pratica essi hanno quella stessa passione per i gadget tecnologici che caratterizza moltissime persone al giorno d’oggi, con l’unica differenza che invece di trattarsi di periferiche esterne, abbiamo delle vere e proprie protesi, se non addirittura estensioni del corpo umano. Una passione che si focalizza su due aspetti, esattamente come succede oggi con i telefoni cellulari, gli occhiali, gli orologi e altri oggetti tradizionali che si sono nel tempo ibridati con la telematica più spinta: il primo è quello funzionale, il secondo è quello estetico.

Da un punto di vista funzionale c’è la ricerca di caratteristiche sempre più avanzate: realtà virtuale, connettività in rete, produzione e condivisione di contenuti multimediali di ogni genere. Da un punto di vista estetico, una personalizzazione sempre più spinta, fino ad arrivare alla proposta di Google di un cellulare modulare assemblabile.

Ma quanto siamo lontani da questo mondo? Guardate questi video. Sono solo alcuni dei tanti che si possono trovare in rete, e vi renderete conto che forse ci siamo già.

D’altra parte, una volta che uno si deve installare una protesi artificiale per sostituire, ad esempio, un arto amputato, perché non potenziarla attraverso funzioni che l’organo originale non aveva? E perché non personalizzarla, trasformarla, costruire delle componenti modulari che si possano innestare a piacere? Perché, ad esempio, farla somigliare all’arto originale, col rischio che comunque si veda la differenza, quando si può esaltarne il suo carattere artificiale con il disegno, i colori e i materiali? Perché no?

In fondo, le protesi che molti corridori utilizzano per correre nonostante l’amputazione di una o entrambe le gambe, non rischiano di renderli persino più veloci delle loro controparti completamente organiche? Perché quindi nascondere, mimetizzare con un’apparenza normale ciò che normale non è? Forse siamo arrivati al punto in cui l’essere disabili potrebbe diventare un’opportunità per diventare super-abili, per dare all’evoluzione una direzione che la natura non ha previsto e che ci renderà ancora più diversi da tutte le altre specie di questo pianeta, ovvero quella di diventare Homo Cyberneticus.

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