Dear Granzotto



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Riporto dalla rubrica «La parola ai lettori» pubblicata su «Il Giornale» del 25 luglio 2007. Un giovane lettore chiede:

Caro Granzotto,
… vorrei chiederle come mai, se le donne si vantano di essere uguali agli uomini, le divorziate si prendono l’assegno di mantenimento? È ovvio l’assegno per i figli ma non quello per le mogli che lavorano e quindi hanno uno stipendio! Alla trasmissione televisiva Forum anche tante donne si lamentano per questa legge che fa rimanere gli ex-mariti in mutande…


Risponde Paolo Granzotto:

…ma cosa importa a un tredicenne come te il divorzio, l’assegno di mantenimento e tutte quelle miserie là? Intendi prenderla alla larga e prepararti in tempo? Comunque sia, se proprio ci tieni, sappi che l’istituto del divorzio pratica la par condicio. L’assegno divorzile, così si chiama, non se lo cucca solo la donna. Può cuccarselo anche l’uomo, quando non abbia i mezzi per conservare il tenore di vita che aveva nelle vesti di marito (di una moglie più ricca, va da sé) e sempre che sia la consorte a chieder il divorzio. In pratica: paga chi ha inteso divorziare e paga solo se il coniuge non ha una lira. Anzi no: se non ha quel tanto che gli permetta di seguitare a godersela come se la godeva quando era sposato. Chiaro? …

Caro Granzotto, purtroppo no. Purtroppo quanto dice è inesatto, anzi, mi spiace dirlo, assolutamente errato. Non gliene faccio una colpa. La maggior parte della gente sa ben poco di quello che succede in un divorzio, specialmente se conflittuale, ancor peggio se ci sono di mezzo dei figli. Non è colpa loro: esiste una disinformazione voluta che serve a sostenere un giro d’affari miliardario, e sto parlando di euro, non di vecchie lire, e che si propone di dare, di «tutte quelle miserie là», come le chiama lei, una visione distorta e mendace. Mi permetta quindi di chiarire alcuni punti su una materia che purtroppo, sia personalmente, sia a causa del mio impegno sociale nel settore, conosco purtroppo fin troppo bene. Credo che il suo giovane lettore meriti di sapere come stanno esattamente le cose, anche perché un ragazzo di tredici anni che si pone una domanda come quella che ha fatto a lei, dimostra una maturità e un’attenzione alle problematiche sociali che va elogiata, non scoraggiata.

Incominciamo a dire una cosa. Quando lei usa la parola miserie, usa un termine sicuramente appropriato per il problema in questione, ma non tanto perché questo genere di conflitti finisce per mostrare il peggio che un essere umano è in grado di dare, come nel famoso film La Guerra dei Roses, ma perché su un problema così delicato, che interessa ancor prima che la sfera economica quella affettiva, si è venuto a sviluppare un sistema perverso che affonda le sue radici in un substrato di interesse, pregiudizio, discriminazione, ignoranza e incompetenza, e che di questo conflitto vive e si alimenta, tanto da opporsi a qualunque iniziativa intesa ad attenuarlo, a mitigarlo, a moderarlo. Non è un caso se la proposta di intermediazione — non di mediazione, che è altra cosa — obbligatoria in caso di separazione conflittuale in presenza di minori, che le associazioni di genitori separati fecero a suo tempo per una legge sull’affido condiviso, fu immediatamente rimossa in seguito alle pressione delle lobby dei professionisti del settore, in quanto spostava un consistente flusso di denaro dagli studi legali a quelli di mediazione familiare. Questione di soldi, insomma, sebbene fu usato ancora una volta il tradizionale grido di battaglia «nell’interesse del minore». Chi ha seguito l’evoluzione della legge 54/06, prima in Commissione Giustizia, poi alla Camera e infine al Senato, conosce bene questi retroscena, mai pubblicati da alcun giornale.

Comunque, tornando a quanto da lei affermato, ci sono da evidenziare alcune imprecisioni. Innanzi tutto, a parità di situazione e, ovviamente di legge, la giurisprudenza in questo settore è gestita in un modo talmente soggettivo da aver generato una gamma di sentenze assolutamente contraddittorie spesso in piena antitesi l’una con l’altra. Oggi divorziare è un tiro di dadi: non c’è alcuna certezza né alcuna garanzia di equità. Va bene che ogni giudice è indipendente e ha il diritto di formarsi una propria opinione, così come ogni situazione è, in un certo senso, un caso a sé stante; tuttavia nel nostro Paese la situazione è così confusa che a seconda della regione, della provincia, della città, del tribunale e infine, del singolo magistrato, situazioni assolutamente omologabili come analoghe ricevono trattamenti assolutamente diversificati e contrastanti. Tanto per fare un esempio, se a Torino un magistrato ha tolto ad un ex-marito l’obbligo di mantenere la moglie in quanto, pur non lavorando, riceveva regolarmente dal padre un cospicuo vitalizio, in un’altra città italiana un magistrato ha praticamente buttato sul lastrico un poveraccio perché, a suo dire, era un «fallito, incapace persino di mantenere una famiglia». Perché? Beh, il tizio in questione era sposato con una donna che aveva un posto di tutto rilievo in un’azienda e che quindi aveva un sostanzioso stipendio. Così lui aveva concordato con la moglie di occuparsi dei figli e della casa, ovvero era diventato un casalingo a tempo pieno. Puliva casa, faceva la spesa, portava e andava a prendere i figli a scuola, si occupava di loro in tutto e per tutto, anche perché la moglie era quasi sempre fuori. Un fallito? Se così fosse lo sarebbero tutte le buone madri di famiglia. Una scelta che gli è costata cara, perché quando la moglie, trovatosi un altro, ha deciso di divorziare, non solo ha avuto in affidamento i figli, ma non ha dovuto dare un centesimo all’ex-marito, che ha pure perso la casa di famiglia. Come vede, non è affatto vero che in questo settore vale la par condicio, né che a pagare è chi chiede il divorzio, com’è il caso di un’altra donna che non solo è riuscita a buttare fuori di casa l’ex-marito — la casa era di lui, per giunta — a farsi dare in affidamento i figli e a percepire un assegno divorzile che ha messo letteralmente sotto un ponte il loro padre, ma vi ha portato il suo nuovo compagno con il quale convive e che, ovviamente, lavora e ha un buon salario. Ma si sa, la convivenza non è il matrimonio, dice la Cassazione, non dà le stesse garanzie — quali poi sarebbero, a questo punto, almeno per gli uomini, devo ancora comprenderlo — per cui la signora in questione è comunque una nullatenente. La casa non è sua, poco importa che ci viva e che tutte le spese le paghi l’ex-marito; lo stipendio del convivente non è suo, poco importa che tra quello e l’assegno di mantenimento vivono alla grande, mentre il suo ex è dovuto tornare a convivere con i genitori in quanto non è in grado neppure di pagarsi un affitto.

Par condicio? Parliamo dei figli: ancor oggi sono affidati in oltre il 90% dei casi alla madre, anche se grandi, lasciando al padre, al massimo, la possibilità di essere un padre ad ore, un parente in visita. Non parliamo dei nonni paterni, che praticamente spariscono dalla vita del minore. Certo, ci sono anche molti uomini che se ne fregano della vecchia famiglia, che ritengono di potersi pagare con l’assegno divorzile il diritto ad abdicare al loro ruolo di genitori per farsi una nuova vita, ma il punto è proprio questo: l’affido condiviso non è mai stata intesa come una legge a favore dei padri, ma dei buoni genitori, ovvero di coloro che si preoccupano di mantenere un impegno che non deve essere inteso come preso con l’ex-coniuge ma direttamente con i figli. L’affido esclusivo, invece, premia il genitore più egoista: la madre che non ha scrupoli ad usare i figli come moneta di scambio per un miglior trattamento economico o negandoli per punire l’ex-marito; il padre che ha deciso di farsi una nuova famiglia o comunque di dare una svolta alla propria vita e decide di cancellare il proprio passato semplicemente pagando una sorta di tassa chiamata assegno divorzile, se poi la paga. E così, ad essere colpiti, sono i bambini, che diventano di colpo e senza motivo, orfani di uno dei due genitori, quelle madri che lavorano e che ben volentieri vorrebbero condividere con l’ex-marito la cura dei loro figli, perché da sole non ce la fanno, e quei padri che pur lavorando, vorrebbero passare più tempo con i loro figli per svolgere in pieno quello che è il vero ruolo di genitore e che non si può esaurire certo con una gita al parco giochi o una serata al cinema una volta ogni tanto.

Un’ultima considerazione: il principio secondo cui al consorte più debole economicamente dovrebbe essere garantito lo stesso tenore di vita che aveva da sposato potrà forse valere per quelle coppie miliardarie che di soldi ne han fin sopra le orecchie, ma per tutti gli altri è un’emerita idiozia. Quando due persone che hanno un normale salario o che comunque vivono con un migliaio o poco più di euro al mese ciascuno, una volta detratte le tasse e i vari balzelli che la nostra società ci impone, si separano, tutte le spese fisse si raddoppiano. Raddoppia l’affitto, la luce, il gas, l’acqua, il telefono, raddoppiano le spese del condominio e le tasse per i rifiuti, insomma, separarsi, assegno divorzile a parte, vuol dire diventare nel complesso più poveri. E qui torniamo alla par condicio: se la somma delle spese della ex-lei e del ex-lui sono maggiori di quelle che avevano quando erano sposati, come si può garantire ad entrambi lo stesso tenore di vita? Semplice: non si può. Dare al coniuge più debole — chissà perché è quasi sempre la moglie — lo stesso tenore di vita che aveva quando era sposato vuol dire dare all’altro un tenore più basso, ovvero rendere lui il coniuge più debole. Che senso ha? È solo ipocrisia. Ha ben ragione il suo giovane lettore ad dire che sono sempre di più le donne che affermano che tutto ciò è sbagliato. Ho molte amiche femministe, ma femministe vere, di quelle che pretendono di vedersela alla pari con gli uomini in tutti i campi e lo fanno egregiamente. Loro a queste condizioni da mantenuta legalizzata non ci stanno. Le sedicenti femministe che sostengono questo sistema non sono interessate alla pari dignità ma solo ad acquisire privilegi per bilanciare, così dicono, quelli che per tanti secoli hanno avuto i maschi. Beh, a me non interessa come la pensasse mio nonno o il mio bisnonno. Io credo fermamente nella pari dignità fra sessi e nel diritti di tutti ad avere pari opportunità, e non mi riferisco solo alle donne, ma ai disabili, agli omosessuali, alle persone di altre etnie e religioni. Pari opportunità non vuol dire però pari risultati, né pari condizioni. Che ognuno abbia in funzione di quello che veramente dà alla società. A tutti le stesse opportunità, ma che sia il merito a determinare il giusto riconoscimento, anche sul piano economico, altrimenti si rischia di creare dei veri e propri paradossi come ad esempio le quote rosa, dove per compensare una discriminazione se ne introduce un’altra. Così, se è giusto aiutare il coniuge che ha fatto la scelta di non lavorare per occuparsi dei figli, sarebbe anche giusto chiedere allo stesso di provare — nessuno pretende che ci riesca in un mercato del lavoro difficile come il nostro — ad avere almeno in parte una propria indipendenza economica: è una questione di dignità personale.

Per concludere, caro Granzotto, la situazione è ben diversa da quella da lei prospettata al suo giovane lettore. Ancora oggi, a distanza di oltre un anno dall’approvazione della legge sull’affido condiviso, molti giudici, soprattutto nel Centro-Sud, in particolare a Roma, si rifiutano di applicarla. Una situazione inverosimile da un punto di vista del diritto, eppure reale, concreta, facilmente verificabile purché si mantenga un sano spirito critico sui dati diffusi ufficialmente da alcuni istituti e purché si gratti sotto la vernice e si voglia davvero andare fino in fondo. Non pretendo che lei mi creda, anzi, la prego di non farlo. È un giornalista, giusto? Allora, se ama davvero il suo mestiere e se ritiene importante dare ai suoi giovani (e meno giovani) lettori un’informazione corretta e obiettiva, provi a cercare da solo la verità, ma l’avverto: potrebbe doversi immergere fino al collo in quelle miserie delle quali il suo giovane lettore non dovrebbe, a suo avviso, ancora interessarsi — ma si è poi chiesto perché un ragazzo di tredici anni le ha fatto una simile domanda? Forse in quelle miserie lui si trova già, magari come vittima innocente di un sistema predatorio e opportunista. Io le posso solo dire che da anni cerco di farla conoscere all’opinione pubblica questa verità, ma dato che non ho nell’armadio un costume di Batman e non sono particolarmente bravo a fare free-climbing sui monumenti, ho qualche difficoltà a portare all’attenzione dei media il problema in questione. Per giornali e televisioni è molto più semplice e vantaggioso trasformare il tutto in un bel reality show in cui far recitare da una parte qualche padre separato in cerca di protagonismo, dall’altra proprio quelle iene che per tanti anni si sono arricchite sulla pelle dei nostri figli, ovvero i cosiddetti esperti. E le assicuro che lo sono davvero esperti, ma nel fare i loro interessi, caro Granzotto, solo i loro interessi.

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