Devolution, not dissolution



Sono diversi anni ormai che si parla di federalismo e devolution. In genere il dibattito si focalizza su due modelli estremizzati: uno che vuole tutto il potere spostato verso la periferia, lasciando al centro quelle competenze che sono fisiologicamente di carattere nazionale, come le relazioni con l’estero, ad esempio; l’altro che vede nella centralità dello Stato una caratteristica alla quale non si può rinunciare e limita il potere degli enti locali in un ambito molto ben definito dove la delega è comunque soggetta a uno stretto controllo centrale.

Come spesso succede nel nostro Paese, i due modelli vengono poi elevati a bandiera di questo o quello schieramento, di questo o quel partito politico, tanto che la discussione si trasforma in breve in uno scontro feroce a colpi di slogan in cui si perde completamente di vista il problema centrale.

Già, ma qual è il problema centrale?

Semplice: l’efficienza dell’amministrazione della cosa pubblica.

Un apparato statale non è altro che un’immensa macchina organizzatrice, complessa fin che si vuole, sicuramente complicata, ma comunque un’organizzazione e come tale soggetta alle regole che dovrebbero caratterizzare qualsiasi organizzazione seria.

Quando si definiscono le caratteristiche di un’organizzazione, è estremamente importante definire molto chiaramente qual è la missione di quella organizzazione, individuarne gli obiettivi, stabilire dei valori e quindi, una cultura, delineare una struttura, definire ruoli, identificare le funzioni, assegnare responsabilità, disegnare i metodi e i processi, fissare la metrica di valutazione, gestire risorse e competenze, pianificare iniziative e curare la comunicazione.

Per una definizione dei termini e dei concetti riportati nella precedente affermazione, si prega di far riferimento al riquadro in fondo all’articolo.

Quale debba essere quindi la struttura di una certa organizzazione, se una certa funzione o una specifica responsabilità vada assegnata a livello centrale o periferico, non è e non può essere una questione di principi, ma di specifica convenienza, basata sull’analisi di quale sia la scelta ottimale al fine di raggiungere determinati risultati misurabili. In genere, spostare tutto il potere verso il centro o verso la periferia è raramente una scelta adeguata. Quasi sempre la soluzione ottimale è una distribuzione delle responsabilità, e quindi del potere decisionale, che interessi tutta la struttura, dal centro alla periferia.

Facciamo un esempio pratico: il turismo. È evidente che la gestione specifica delle risorse e delle infrastrutture turistiche dovrebbe essere di competenza di chi tali risorse possiede, ovvero delle regioni, delle province e in ultima battuta dello specifico comune. È anche tuttavia risaputo che i grandi flussi turistici non ragionano in termini di singole località, ma di Paese nel suo complesso, specie se vengono da regioni remote come gli Stati Uniti o il Giappone. Chi fa un viaggio di 8.000 chilometri, raramente lo fa per fermarsi in un singolo posto, specialmente se piccolo e se offre un solo elemento di attrazione. Inoltre, il turismo d’oltreoceano pretende la disponibilità di strutture logistiche, alberghiere, residenziali, di ristorazione e intrattenmento di buona qualità e soprattutto il meno eterogenee possibile. Non è accettabile per un turista che l’albergo da tre stelle in un posto abbia un certo livello di servizio e quello, sempre da tre stelle, in un altro, ne abbia uno molto più scadente. Analogamente, la disponibilità nei punti di attrazione (musei, pinacoteche, centri storici, parchi, ecc.), di strutture informative e di ristoro, è data per scontata. La capacità di attrarre i grandi flussi e ridistribuirli sul territorio nazionale, la definizione di standard di qualità e il controllo del rispetto di tali standard, la creazione di percorsi guidati interregionali, di pacchetti personalizzabili da proprorre ai grandi tour operator, non è e non potrà mai essere esclusiva di una singola regione e tantomeno di una provincia o di un comune. Determinare una strategia per il turismo e realizzare infrastrutture comuni, soprattutto sul piano logistico, non solo è competenza di un apparato centrale, ma serve a ridurre inutili ridondanze e sprechi permettendo ai governi periferici di concentrarsi sulla creazione di valore aggiunto per il turista, sia italiano che straniero.

Naturalmente, quando parliamo di organizzazione statale, non possiamo non tener conto dei fattori geografici e culturali, delle realtà locali già esistenti e del fatto che non si sta costruendo un’organizzazione da zero ma la si sta poggiando su un sistema complesso qual è quell’insieme di strutture e organizzazioni sociali che caratterizzano un Paese. Questo fa sì che rispetto alla struttura ottimale, lo Stato deve fare i conti con componenti culturali ed etniche che possono rivendicare una propria autonomia e quindi una componente del potere decisionale, anche quando questo dovesse andare a loro scapito.

Tuttavia, la ridistribuzione del potere non deve rappresentare un’opportunità per moltiplicare le poltrone, per creare un sistema polverizzato formato da mille baronie spesso in competizione fra loro e il cui risultato finale è un indebolimento complessivo del Paese. Molte delle rivendicazioni politiche di autonomia, purtroppo, spesso nascondono le ambizioni di singoli che, facendo leva su giuste rivendicazioni della massa, hanno come solo e unico obiettivo il raggiungimento del potere per sé, potere che poi dimostrano di non saper utilizzare come avevano promesso, dimostrando le stesse manchevolezze, se non peggiori, delle quali avevano accusato il governo centrale.

Termini e concetti

Per missione si intende lo scopo ultimo di un’organizzazione. Ad esempio, per un sindacato la missione è sostenere i lavoratori in un certo settore industriale mentre per un’organizzazione umanitaria può essere quella di aiutare determinate popolazioni in una regione particolarmente povera del pianeta. La missione non è un semplice obiettivo, ma la ragione prima per cui quell’organizzazione esiste.

Come un organizzazione attua la sua missione dipende dagli obiettivi che si dà, obiettivi che possono anche cambiare nel tempo. Ad esempio, alcune organizzazioni umanitarie sono specializzate in interventi sanitari mentre altre si occupano di creare infrastrutture o di fare formazione. In alcuni casi determinati obiettivi sono così importanti da diventare praticamente la missione di sottostrutture di un’organizzazione, ovvero di specifiche divisioni che si daranno a loro volta obiettivi ancora più specializzati.

La differenza fra missione e obiettivi, quindi, è che la prima rappresenta la meta finale di un’organizzazione, i secondi invece rappresentano quei passi ben definiti attraverso i quali può essere raggiunta tale meta. Un passo attraverso il quale un’organizzazione può raggiungere un certo obiettivo è quindi, come già detto, creare una sottostruttura per il quale esso rappresenti la meta.

Il collante di un’organizzazione è la sua cultura. La cultura si basa principalmente su una scala di valori, ovvero di principi che stabiliscono le relazioni all’interno dell’organizzazione e verso l’esterno. Un’organizzazione senza valori è come una macchina senza pilota: si muove a caso, in modo del tutto imprevedibile e incostante. I valori spesso discendono direttamente dalla missione, altre volte sono alla radice della stessa. Ad esempio, un’organizzazione umanitaria può aderire ai valori cristiani, e quindi, a parità di missione con altre organizzazioni analoghe, definirà i suoi obiettivi e il modo di procedere in base a specifici principi religiosi. Viceversa, un’organizzazione ambientalista si rifà a principi di salvaguardia dell’ambiente che esistono a priori. Non sarebbe possibile pensare una tale organizzazione al di fuori di un modello ecologista.

Abbiamo parlato di struttura. Dare una struttura vuol dire identificare una serie di componenti che operano da sole o in sinergia con altre per raggiungere gli obiettivi preposti. Tutto i sistemi complessi che noi conosciamo hanno una struttura: una città, una macchina, noi stessi, il nostro stesso corpo. La definizione di una struttura permette una gestione più semplice dell’organizzazione e quindi, potenzialmente, una maggiore efficienza. Esistono molti modelli di organizzazione. Una volta le strutture erano abbastanza semplici, come quella gerarchica a piramide. Oggi si preferiscono strutture più flessibili, meno statiche, a matrice o a grafo, nelle quali la gestione amministrativa, quella manageriale e quella funzionale non sempre coincidono.

Ruoli e funzioni rappresentano invece i nodi decisionali rispettivamente degli individui e delle sottostrutture di un’organizzazione. Avere un ruolo in un’organizzazione è un po’ come avere una parte in uno spettacolo teatrale. Bisogna sapercisi immedesimare, e quindi la cultura e i valori sono fondamentali per assegnare un ruolo a qualcuno. I ruoli e le funzioni, quindi, sono le chiavi gestionali di un’organizzazione, ovvero gli elementi dove sono prese le decisioni, dove si fanno delle scelte.

Per ogni ruolo o funzione, quindi, si possono individuare una o più responsabilità. Non ha senso dare a qualcuno la responsabilità di qualcosa se non ha il potere di decidere sulla stessa, né ha senso dare a qualcuno un potere decisionale se non se ne assume in pieno la responsabilità. Decidere, vuol dire soprattutto gestire il rischio. Non c’è infatti decisione se non c’è rischio. In mancanza di rischio, infatti, ogni decisione è semplicemente un atto dovuto.

Purtroppo, nel nostro Paese, il termine responsabilità viene troppo spesso associato a quello di colpa, tant’è che tutti vogliono il potere, ma nessuno si assume delle responsabilità. È assolutamente fondamentale, per il corretto funzionamento di un’organizzazione, che ruoli e funzioni e le corrispondenti responsabilità siano molto ben definite ed assegnate in modo chiaro e non equivoco a specifici individui e sottostrutture.

Un’organizzazione funziona grazie agli individui che ne fanno parte. Il vero capitale di ogni organizzazione non sono le infrastrutture o la tecnologia, ma le persone. Ogni persona, ogni individuo, per quanto poco importante possa essere il suo ruolo nella struttura, è un ricettacolo di esperienza e conoscenza che non va sottovalutato e va usato al meglio per raggiungere gli obiettivi preposti e quindi muoversi verso la missione che ci si è dati.

Gestire le risorse è quindi estremamente importante, non solo quelle economiche o infrastrutturali, ma soprattutto quelle umane. La gestione della conoscenza è la chiave di volta del successo di un’organizzazione moderna. Tuttavia, un’organizzazione non può e non deve dipendere dal singolo individuo, perché le persone possono lasciare un organizzazione o più semplicemente non essere disponibili quando servono. Ecco allora che per salvaguardare la propria capacità operativa è fondamentale disegnare e realizzare specifici metodi e processi.

Un metodo è la sommarizzazione di una serie di regole, spesso euristiche, associate a un modello, la cui applicazione evita di commettere errori e permette di operare con maggiore efficienza quando si affronta un determinato problema o si decide di realizzare una specifica iniziativa.

Un processo invece descrive in che modo si può passare da uno stato a un altro, dove per stato si intende una configurazione misurabile di qualsiasi natura. Un processo formativo, ad esempio, può essere utilizzato per portare uno o più individui a un certo livello di conoscenza; un processo manufatturiero a trasformare materia prima o prelavorati in un prodotto finale.

Per poter verificare il corretto funzionamento di un processo e soprattutto per poter valutare se quello che si sta facendo è in linea con le aspettative, è fondamentale stabilire una metrica. Per metrica si intende un insieme di indicatori la cui misurazione oggettiva permette di valutare i progressi fatti e di tenere sotto controllo l’organizzazione stessa. Tutti noi usiamo, consciamente o meno, una o più metriche nella vita di tutti i giorni. A volte può non essere piacevole essere misurati e molti sono poco propensi anche ad automisurarsi, per evitare di doversi confrontare con i propri limiti e i propri difetti, ma mettersi alla prova, misurarsi, è l’unico modo per crescere, per migliorare. Quello che ad esempio molti studenti non comprendono a volte, e a volte anche molti insegnanti, è che il voto non è un premio o una punizione, ma un indicatore del livello raggiunto in una determinata materia, ovvero uno strumento per chi studia, più che per chi insegna. Quando si ragiona solo a livello qualitativo, è facile commettere degli errori di valutazione. Certo, non tutto può essere misurato, ma si possono definire metodi e unità di misura per molte più cose di quanto si possa pensare, e là dove neanche questo è possibile, si possono spesso quantomeno identificare dei punti di riferimento o dei valori di tendenza. Ad esempio, anche se non ho un termometro, in genere posso dire se la temperatura apparente è scesa, salita o rimasta pù o meno la stessa rispetto al giorno prima. Analogamente, se sto facendo una regata, anche dovessi avere qualche difficoltà nel valutare tempi e distanze, ho sempre i giri di boa quale riferimento assoluto.

L’insieme degli indicatori che mi permettono di tenere sotto controllo un sistema o un processo è detto pannello di controllo. Che la misura sia presa in tempo reale, campionata o di tipo statistico, poi, dipende ovviamente da cosa sto misurando.

Naturalmente, per poter raggiungere i propri obiettivi, un’organizzazione deve anche e soprattutto avere una struttura operativa. Non basta gestire o pianificare: è necessario eseguire e verificare. Per questo motivo è necessario saper definire specifiche iniziative atte a raggiungere gli obiettivi preposti e quindi, pianificare ed eseguire specifici progetti. Gestire un progetto richiede competenze specifiche: bisogna valutare tempi, dipendenze, bisogni, competenze, allocare risorse e tenere sotto controllo gli aspetti economici, pianificare collaudi e controlli e, soprattutto, gestire le eccezioni e gli imprevisti.

Ultima, ma solo nell’esposizione, è la comunicazione. In realtà la comunicazione è una componente trasversale a tutte quelle che abbiamo visto. Comunicare, in un’organizzazione, è fondamentale. All’interno della stessa la comunicazione può essere verticale od orizzontale, mirata o estesa, specifica o generale, informativa o formativa, può essere a una, due o più vie e veicolata attraverso più canali. Un certo livello di comunicazione, inoltre, può avere carattere di spontaneità, ma la maggior parte della comunicazione in un’organizzazione deve essere pianificata e allineata a specifici obiettivi. Lo scopo, tuttavia, non è quello di controllare il sistema, ma di sostenerne i valori, di far sentire tutti partecipi della missione e degli obiettivi dell’organizzazione stessa. Verso l’esterno la comunicazione serve a sostenere la missione e a evidenziare i valori dell’organizzazione, a promuoverne gli scopi e i prodotti, dove per prodottto non si intende solo quella che può essere la produzione di un’azienda commerciale, ma anche i risultati di un’organizzazione senza scopo di lucro, a fidelizzare i clienti e trovare sostenitori. In definitiva, è ciò che genera l’immagine di un’organizzazione.

Se l’obiettivo finale di metodi e processi è l’efficienza, quello della comunicazione è l’efficacia. La comunicazione, soprattutto quella interpersonale, è anche il substrato sul quale si sviluppa la condivisione della conoscenza e la creazione all’interno dell’organizzazione delle comunità di pratica, ovvero di tutti quegli individui che, indipendentemente dal ruolo o dalle responsabilità, condividono competenze, professionalità e interessi. Una tipica comunità è rappresentata dall’insieme dei partecipanti a un gruppo di discussione o ad una lista di distribuzione in rete.

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