Indipendenza sì, mancanza di controllo no



Spesso si sente parlare di «Indipendenza della Magistratura». Ora, il principio di indipendenza dei tre poteri dello Stato — Legislativo, Esecutivo e Giudiziario — è sacrosanto, ma indipendenza non vuol dire essere al di sopra di qualsiasi controllo o critica, né diventare una sorta di immunità basata su un sistema di autotutela di tipo corporativo. Tanto più che la tanto declamata indipendenza viene spesso menzionata, da chi magistrato non è, solo in modo strumentale quando nei guai è l’avversario politico del momento, destra o sinistra che sia.

Qualche tempo fa fece molto discutere la cosiddetta Legge Cirami. Da una parte c’era chi la sosteneva, si diceva, esclusivamente per interessi di comodo, dall’altra c’era chi vi si opponeva sostanzialmente per lo stesso motivo, ovvero perché si giudicava strumentale a determinati interessi. In pratica, come succede troppo spesso nel nostro sistema legislativo, le leggi non vengono mai proposte od osteggiate in base a principi generali, da discutere, da dibattere, sui quali trovare convergenze o dirimere divergenze, ma a fronte di casi specifici e contingenti.

Qualcosa di simile avvenne anche per la legge relativa al numero massimo di emittenti televisive che potevano o meno essere possedute da un singolo soggetto giuridico nel nostro Paese. Anche in quel caso il numero venne stabilito in base a considerazioni politiche contingenti, legate al numero effettivamente esistente di reti possedute da Mediaset da una parte e dalla RAI dall’altra in quello specifico periodo, non in base a parametri oggettivi legati a criteri condivisibili di concentrazione massima accettabile in un Paese democratico. Inutile dire che leggi di questo tipo finiscono per perdere qualunque significato come la tecnologia evolve. Già oggi, con il satellitare e il digitale terrestre, tutto il discorso fatto a suo tempo deve essere completamente rivisto. Si fossero stabiliti criteri generali, non legati a una specifica tecnologia, ma a principi di natura sociale, forse oggi avremmo una buona legge sull’emittenza televisiva applicabile anche alle nuove tecnologie.

Tornando alla Cirami, il principio di base secondo il quale un cittadino ha il diritto di poter vedere il proprio processo spostato ad altra sede nel momento in cui ritenga di essere ingiustamente penalizzato in quella presso la quale il processo si sta svolgendo è un diritto sacrosanto, fermo restando che devono essere stabiliti dei criteri oggettivi per evitare che tale diritto possa essere strumentalizzato per far ritardare un processo o per creare comunque ostacolo alla Giustizia. È infatti talmente sacrosanto che dovrebbe essere applicato anche alla Giustizia Civile.

Purtroppo sempre più spesso nel Diritto Civile il cittadino si trova dinnanzi a una situazione di totale sfacelo giuridico, una situazione nella quale il principio stesso di giustizia è distorto. Le sentenze non sono più conseguenza diretta e ragionevolmente prevedibile di una Legge uguale per tutti né di una Giurisprudenza omogenea, almeno nei principi fondamentali, su tutto il territorio nazionale, ma una vera e propria Lotteria nella quale, a seconda del Tribunale, della Sezione e dello stesso Giudice, la medesima situazione può essere giudicata in base a criteri estremamente differenti, a volte addirittura contrapposti.

Lo sanno molto bene i genitori separati che si ritrovano, ad esempio, nella stessa regione, il Lazio, un Tribunale, quello di Viterbo, che emette sentenze innovative ed equilibrate nel pieno rispetto del principio di bigenitorialità, e quello di Roma, invece, che sembra essere più che altro un Tribunale dell’Inquisizione nel quale il diritto di essere genitore viene regolarmente negato in caso di separazione conflittuale ad uno dei due coniugi, nella maggior parte dei casi al padre. In queste condizioni, parlare di Giustizia, è quasi una beffa.

Il problema, tuttavia, nasce quando una sentenza ingiusta o eccessivamente e immotivatamente penalizzante non è frutto di insensibilità, ignoranza, incompetenza, demagogia o simili, tutte cause stigmatizzabili, ma che purtroppo non rappresentano un reato nel nostro Paese e che quindi non è possibile perseguire. Il problema nasce quando a fronte di una sentenza c’è il ragionevole dubbio di una volontà penalizzante o discriminante, legata a situazioni contingenti, interessi privati o peggio ancora motivazioni politiche. Purtroppo in questo caso il magistrato ha tutti gli strumenti per colpire un cittadino senza rischiare formalmente alcunché, mentre quest’ultimo non ha alcuna forma di difesa da questo genere di attacchi. L’unica sarebbe appunto chiedere di spostare la causa altrove, ma ciò, nella Giustizia Civile, non è possibile.

Ecco allora che la mancanza di una serie di criteri che stabiliscano se sussista un ragionevole dubbio di discriminazione o una qualche incompatibilità della sede giudicante con uno specifico caso, rappresenta un vuoto legislativo che va assolutamente colmato, possibilmente non facendone una scelta di parte o di partito, ma di principio, ovvero il risultato di un movimento trasversale a tutto l’arco costituzionale.

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