Diritti



Diritti. Li rivendichiamo se non li abbiamo; protestiamo se riteniamo che qualcuno violi i nostri; dibattiamo se è giusto o meno che altri rivendichino i propri; calpestiamo quelli degli altri se confliggono con i nostri diritti o con i nostri interessi. Per i propri diritti si sono scatenate guerre e rivoluzioni; di diritti si parla ogni qual volta una minoranza è discriminata; sono spesso al centro del dibattito politico e delle chiacchiere da bar; in pratica condizionano molte delle nostre decisioni e costituiscono in buona parte quella scala di valori rispetto alla quale decidiamo cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.

Ma cos’è un diritto?

Potremmo dire che un diritto è il riconoscimento collettivo della possibilità per un individuo di essere, avere, dire o fare qualcosa. Di essere libero, ad esempio, di avere una proprietà, di poter esprimere la propria opinione oppure di poter votare i propri rappresentanti. Essere, avere, dire e fare: sembra una filastrocca per bambini, eppure in quattro verbi c’è la sostanza del diritto.

Se analizziamo la definizione data, tuttavia, c’è un punto che è determinante nella comprensione di cosa sia un diritto, ed è quello di riconoscimento collettivo. In effetti un diritto diventa tale solo quando qualcuno ce lo riconosce, anzi, quando buona parte della società in cui viviamo ce lo riconosce. Alcuni filosofi parlano di diritto naturale, i teologi di diritto divino, molte ideologie parlano dei diritti come di un assoluto, qualcosa di valido e stabilito a priori, ma è davvero così?

Spesso pensiamo a quelle società che non riconoscevano questo o quel diritto, per noi ormai assodato, come discriminatorie, illiberali, assolutiste, ma anche questo, è vero o dipende piuttosto dal fatto che oramai quel particolare diritto è un fatto incontestabile la cui violazione rappresenta per noi un crimine, un atto contro la stessa collettività?

Pensiamo al diritto alla vita, al diritto per un bambino di crescere in una famiglia, di poter diventare un uomo o una donna. Sebbene non sempre questo diritto venga rispettato anche di questi tempi, la maggior parte di noi non potrebbe negare che si tratti di un diritto fondamentale. Eppure quando gli uomini vivevano in tribù nomadi di cacciatori e raccoglitori, chi era troppo debole per sopravvivere veniva abbandonato, fosse un bambino, un adulto ferito o un vecchio. Certo, a quell’epoca eravamo alquanto primitivi, ma millenni più tardi, nella Sparta antica, questo diritto non era comunque riconosciuto a quei bambini che avessero una qualche malformazione e più tardi, in molte civiltà, non era inusuale sopprimere bambini perché deformi, deboli o persino in quanto femmine. Succede ancora oggi: in India, nelle ultime tre generazioni, più di 50 milioni di neonati sono stati sistematicamente sterminati per l’unica ragione di essere femmine. Molte di quelle neonate sono state uccise con l’aborto selettivo, ma moltissime sono state soppresse subito dopo la nascita, un vero e proprio infanticidio.

Una barbarie, diremmo, considerando chiusa la questione, ma gli spartani si sentivano tutt’altro che barbari e molte delle famiglie che ancora oggi praticano queste usanze, non si considerano criminali e non si sentono neppure in colpa. Per loro, vivere non è sempre un diritto.

Ma vediamo qualche altro esempio, magari meno cruento ma non per questo meno significativo. L’Inghilterra del XIX secolo non si considerava certo una nazione incivile, anzi, si riteneva, a torto o ragione, un faro della civiltà. Eppure ci vollero ben 56 anni alle donne inglesi per ottenere la parità con gli uomini sul piano elettorale, ovvero dal 1872, quando nacque il movimento delle suffragette fino al 2 luglio 1928, quando finalmente una legge estese il suffragio a tutte le donne, almeno in Inghilterra. E questo dimostrò come l’Inghilterra in effetti fosse davvero un esempio di civiltà, almeno sotto questo aspetto, se si pensa che la Germania estese il suffragio universale alle donne solo nel 1919, gli Stati Uniti nel 1920, la Francia nel 1945, l’Italia nel 1946 e la Svizzera addirittura solo nel 1971!

Eppure nessuna di queste nazioni si considerava incivile, nessun cittadino — e non parlo solo di uomini, ma anche della maggior parte delle stesse donne — che non riteneva appropriato rivendicare tale diritto, si considerava sessista o discriminatore. Semplicemente non considerava tale rivendicazione valida, non considerava quello di poter votare un diritto estendibile anche alle donne. Così come non si consideravano razzisti molti di quelli che negli stati Uniti degli anni Cinquanta trovavano normale che i cittadini di colore studiassero in classi separate rispetto a quelle dei bianchi o viaggiassero in vagoni separati nei convogli ferroviari.

Il diritto alla parità fra bianchi e neri semplicemente non era un diritto: se ne discuteva, ci furono anche molte sentenze in tal senso in diversi Stati, ma era argomento di discussione esattamente come lo è oggi in Italia quello per gli omosessuali di potersi sposare. Se ne parla, c’è chi è a favore, chi è contrario, ma di fatto la legge non lo stabilisce come un diritto. Siamo dunque anche noi dei barbari?

Non è una domanda da poco: se non è la Natura o Dio a stabilirlo, allora quando un diritto è tale, quando deve essere riconosciuto, e quando una società va considerata “incivile” per il fatto di ostacolarne la rivendicazione?

Abbiamo visto che diritti che oggi non ci sogneremmo mai di contestare fossero tutt’altro che accettati nei secoli passati e affermare che quelle società fossero per questo incivili, quando tutt’oggi esistono decine di rivendicazioni tutt’altro che accettate, è alquanto semplicistico. Le civiltà passate hanno sviluppato idee, filosofie, leggi, discipline artistiche e scientifiche di grande spessore: non erano barbari ignoranti appena usciti dalle caverne. Eppure, le loro società si basavano su assunti per noi del tutto inaccettabili. E allora? Quando un diritto è davvero tale?

La mia opinione — perché ovviamente non esiste ancora a riguardo un principio riconosciuto da tutti indistintamente — è che ciò che rende tale un diritto è la determinazione da parte di chi ritiene di averlo di vederselo riconoscere. In pratica, un diritto non è tale finché non viene riconosciuto e un diritto viene riconosciuto quasi sempre perché c’è stato qualcuno che ha lottato, anche duramente, magari sacrificando la propria esistenza, affinché venisse accettato come tale dalla collettività.

So che questa affermazione provocherà qualche polemica, ma in pratica i diritti non esistono, se pensiamo ad essi come a qualcosa di dovuto, di prestabilito, di scontato. I diritti si conquistano combattendo, a volte con le parole, a volte con la piazza, a volte, purtroppo, con le armi. E richiede molto tempo conquistarli, spesso intere generazioni. Ci vuole un cambiamento culturale per trasformare una minoranza di persone che hanno maturato per prime una determinata consapevolezza in quella maggioranza capace di trasformare in legge quanto prima era solo una speranza.

In conclusione, i diritti non sono dovuti, perché diventano tali solo dopo che una società li riconosce in tal senso: prima spesso li si considera solo assurde pretese. I diritti si conquistano quasi sempre combattendo e questo richiede prima consapevolezza, poi coraggio e sacrificio. Conquistarli costa molto e spesso molti di coloro che oggi se li vedono riconosciuti perché ormai accettati da tutti, coloro che li hanno sempre avuti e non hanno mai neanche immaginato che una volta non fossero affatto scontati, spesso oggi non ne comprendono il valore e dimenticano il sacrificio di chi li ha conquistati per tutti noi.

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