La crisi che non c’è



Quanto è successo con il Monte dei Paschi di Siena non deve affatto sorprendere e in effetti non ha sorpreso nessuno degli addetti ai lavori. Non si tratta di un caso isolato ma di un problema di politica bancaria che ha acceso un segnale d’allarme sul sistema creditizio italiano. Il problema tuttavia delle relazioni che oggigiorno esistono fra finanza ed economia non è certo solo italiano, anzi, si tratta di una tendenza che interessa la maggior parte delle nazioni più ricche e che sta mettendo in crisi l’intero pianeta.

C’è un punto infatti che deve essere ben chiaro, perché altrimenti si rischia di continuare a equivocare sulla situazione attuale, anzi, di permettere ad alcuni di giocare su questo equivoco: se per crisi intendiamo che il nostro sistema economico sia in forte difficoltà per ragioni fisiologiche, allora è falso. La nostra economia, e parlo di quella italiana, ma vale anche per la Spagna e molte altre nazioni, inclusi gli Stati Uniti, non è affatto malata. Il potenziale della nostra società è ancora molto elevato: abbiamo menti brillanti, capacità organizzativa, conoscenza e competenze tecnologiche, risorse. Se invece per crisi intendiamo l’impoverimento del nostro sistema economico a causa di un dissanguamento generatosi nel sistema finanziario, allora sì, la crisi esiste, ma non come impoverimento complessivo della società ma solo di una parte di essa per arricchire una già ricca minoranza. In pratica la crisi è semplicemente un trasferimento di ricchezza da molti verso pochi.

In Italia tutto è cominciato quando gli istituti di credito di diritto pubblico sono stati trasformati in società per azioni. Questa trasformazione ha portato a un cambiamento profondo nel modo di gestire gli affari da parte degli alti dirigenti delle banche, non più interessati a sostenere l’economia reale, ma solo a garantire agli azionisti un buon dividendo e a se stessi elevati premi di risultato. Un comportamento che sta interessando anche molte società per azioni non di carattere finanziario che si stanno trasformando sempre di più in vere e proprie finanziarie perdendo la loro caratterizzazione industriale.

Lo strumento principe per ottenere tutto ciò è il derivato, un titolo nato inizialmente come copertura da rischi finanziari e dalle perdite derivanti dall’acquisto di un bene in un mercato e la vendita in un altro mercato, diventato in seguito un meccanismo fondamentale per gli speculatori [vedi 1]. Si è fatto credere agli investitori che i derivati fossero strumenti affidabili, capaci di garantire un rapido arricchimento in tempi brevi, anche se “un po’ rischiosi”, creando così un mercato malato nel quale derivati abbastanza solidi venivano venduti assieme a titoli estremamente tossici e che si è gonfiato sempre di più sottraendo fondi e risorse all’economia produttiva, ovvero a quella che davvero crea ricchezza e non solo per pochi, ma per tutti [vedi 2].

Tutto ciò è potuto accadere anche grazie al fatto che la maggior parte della popolazione ha una conoscenza piuttosto limitata di economia, una limitazione che fa comodo a chi si arricchisce con questi meccanismi e che ricorda molto quando la Chiesa proibì nel 1559 la traduzione e la stampa della Bibbia in volgare. Un popolo ignorante è un popolo che si può facilmente manipolare e dato che nessuno ama ammettere di essere ignorante, è un popolo che difficilmente protesterà per essere stato tenuto alla larga da determinate conoscenze [vedi 3].

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