Una ricetta per la crescita



Ormai è chiaro che la nostra classe politica è del tutto incapace di far crescere questo Paese. Lo hanno dimostrato gli ultimi governi e non si può dire che non ci abbiano fatto sperimentare di tutto: centrodestra, centrosinistra, governi politici e tecnici, più una serie di improbabili coalizioni che non hanno tuttavia sortito alcun risultato concreto.

Tutto ciò che questi governi sono stati capaci di fare è stato quello di aumentare la pressione fiscale, spesso utilizzando il “gioco delle tre carte” ovvero pubblicizzando a gran voce tagli alla spesa pubblica e riduzioni di specifiche imposte salvo poi nascondere nelle pieghe delle leggi rincari e tassazioni che alla fine hanno affossato pesantemente sia l’economia del Paese che quella delle singole famiglie.

Non starò a ricordare qui la Curva di Laffer che dimostra come un eccessivo aumento delle imposte comporti sempre una riduzione delle entrate fiscali. Chi vuole se la può studiare su Wikipedia. Vorrei invece parlarvi di due aspetti, due opportunità di crescita che non solo non sono state colte dai governi che si sono succeduti alla guida del Paese, ma che hanno visto fare scelte nella direzione opposta a quella che si sarebbe dovuta prendere: mi riferisco al carburante e all’IVA.

Parliamo prima del carburante. Alla base della vita c’è la circolazione: la circolazione del sangue, della linfa, lo scambio di messaggi che avviene nel nostro sistema nervoso. Analogamente un sistema economico è vitale quando denaro, beni e informazioni circolano senza ostacoli, andando ad alimentare tutti i settori della società: produzione, commercio, servizi. Il carburante è alla base dei trasporti, sia merci che passeggeri, pubblici e privati. Il trasporto è a sua volta alla base della logistica che rappresenta il meccanismo più importante di una filiera produttiva e distributiva. Abbassare i costi della logistica vuol dire far crescere aziende e commercio. Ridurre i costi del trasporto, anche quello passeggeri, vuol dire far circolare beni e persone.

Nel mondo del lavoro viaggiare è importante: viaggiano i venditori per trovare nuovi clienti; gli imprenditori per definire nuove opportunità di affari e alleanze; i consumatori, che possono spostarsi per cercare le occasioni migliori. Il trasporto pubblico in città alimenta il commercio dei negozi; sul territorio sostiene il turismo, sia interno che dall’estero.

Mantenendo basso il costo del carburante non solo si alimenta tutta l’economia ma si mantengono bassi i costi dei prodotti e dei servizi perché la logistica rappresenta una voce importante nell’economia della filiera. Non quindi una deflazione dovuta alla morte del commercio, come sta avvenendo adesso, ma una riduzione dei prezzi che ha poi due effetti: da una parte aumentare gli acquisti, dall’altra aumentare il risparmio privato. Una maggiore disponibilità di denaro infatti si andrebbe a ripartire sia in risparmio che in spesa. Il risparmio poi porterebbe a una maggior disponibilità a investire sul mercato finanziario da parte del piccolo risparmiatore in modo da alimentare anche quest’ultimo ma in modo sano, non attraverso bolle speculative e titoli tossici.

Per ridurre i costi del carburante lo Stato ha un meccanismo semplice: eliminare le accise. Alla data in cui scrivo le accise rappresentano circa 0,41 euro per litro a cui vanno sommate l’imposta di fabbricazione sui carburanti e l’IVA. In totale le imposte sul carburante sono oltre 88 centesimi per la benzina verde e quasi 75 per il gasolio. Volendo anche mantenere queste due ultime imposte, eliminare le accise vorrebbe dire portare il costo del carburante per litro in un intervallo fra 1,2 e 1,4 euro. Per aziende, imprese di trasporti e anche comuni cittadini, sarebbe un risparmio notevole, una vera boccata d’aria. Da tener presente inoltre che l’IVA si applica anche alle accise, ovvero paghiamo un’imposta sul valore di un’imposta.

Le accise non ci sono solo sul carburante, ma anche sugli oli combustibili, sul GPL, sul metano, sull’alcool e sull’energia elettrica. È un’imposta sulla quantità, non sul valore come invece è l’IVA. Esse rappresentano circa il 30% delle imposte indirette tenendo conto che una parte di questa percentuale è data dall’IVA sulle accise stesse.

E veniamo appunto all’IVA. Aumentarla vuol dire incassare facilmente. In un Paese nel quale non si vuole davvero combattere l’evasione perché la classe politica e quella finanziaria e imprenditoriale sono collegate da patti e alleanze, il peso del Fisco ricade solo sui cittadini e le imposte indirette rappresentano il modo più sicuro di “far cassa”. Peccato che l’economia di un Paese si basi soprattutto su produzione e consumi, non sulla finanza o sui mercati, per cui aumentando oltre una certa soglia il prezzo dei prodotti si finisce per affossare il commercio. Le case produttrici e i negozianti possono infatti assorbire solo fino a un certo punto l’aumento delle imposte a scapito del loro margine, dopodiché iniziano a perdere in termini di vendita. Il che porta alla chiusura dei negozi e al licenziamento del personale, alla chiusura delle fabbriche o alla liquidazione di divisioni intere e alla conseguente cassa integrazione che porta un ulteriore aggravio per lo Stato.

L’IVA inoltre incide sui trasporti, per cui si torna ai problemi trattati nella prima parte di questo articolo, e sull’energia. Aumentare il costo dell’energia ha effetti analoghi a quelli dell’aumento del costo del carburante, solo che mentre quest’ultimo incide principalmente sulla logistica, l’altro incide anche sulla produzione e sulla distribuzione al dettaglio.

Eliminando quei 41 centesimi di accise sui carburanti e riportando l’IVA al 19%, dopo avere però concordato con le associazioni di settore una ridistribuzione del risparmio fra aziende e consumatori, ovvero maggior margine da una parte ma contemporanea riduzione dei prezzi, si darebbe alla nostra economia una spinta notevole anche in funzione della concorrenza.

Un altro aspetto da considerare, infatti, è che la nostra non è un’economia chiusa. Oggi la maggior parte dei prodotti sul nostro mercato è di provenienza estera e di per sé in questo non c’è nulla di male fintanto che noi si faccia altrettanto su quelli degli altri Paesi. Anche in questo caso la circolazione è vita: importazione ed esportazione, ben bilanciate, creano ricchezza da entrambe le parti. Il commercio è nato così: io ho una cosa che a te manca, tu una che manca a me.

Ma se i consumi si riducono, le aziende estere smettono di investire sul nostro territorio. Pensate a un qualsiasi prodotto fabbricato all’estero: è vero che viene prodotto fuori dall’Italia ma esso crea un indotto anche sulla nostra economia perché la maggior parte dei negozi che lo vendono sono italiani, così come italiana è l’assistenza post-vendita. Tuttavia, se il prodotto non vende, la prima cosa che fanno le aziende straniere, e lo stanno facendo ormai da alcuni anni, è di chiudere l’assistenza sul territorio nazionale così come chiudere, quando ci sono, le fabbriche italiane che producevano per loro parti o ricambi o di non dare più commesse ai terzisti. La conseguenza è un aumento della disoccupazione che le aziende nostrane non riescono a compensare.

Analogamente per quello che riguarda l’esportazione: se i nostri prezzi sono alti a causa della pressione fiscale, siamo meno competitivi con l’estero e la qualità del “made in Italy” da sola non può compensare questo svantaggio. Così i nostri prodotti non riescono più a competere fuori dal nostro Paese, calano le esportazioni e le aziende sono costrette a tagliare, soprattutto le risorse umane.

Un altro taglio meno visibile sull’immediato ma molto più pesante a lungo termine, è quello agli investimenti e alla ricerca. Tagliando queste due voci, le aziende italiane rimangono indietro nello sviluppare nuovi prodotti e servizi, o semplicemente non riescono a fare gli investimenti giusti per far decollare progetti validi che potrebbero portare ricchezza a loro e al Paese.

Ma se si eliminano le accise sui carburanti e si riduce l’IVA da dove li prende lo Stato i soldi per compensare le minori entrate fiscali? Beh, sicuramente una parte, proprio grazie alla curva di Laffer, saranno compensate dall’aumento di quelle stesse entrate dovuto alla crescita economica. Un’altra parte, invece, potrebbe essere ottenuta attraverso una seria lotta all’evasione fiscale, non con quelle campagne strumentali e mediatiche che vanno a colpire lo scontrino da 10 euro, ma combattendo seriamente la Grande Evasione, quella delle banche, dei giochi e delle lotterie, così come rivedendo a livello europeo la questione delle tasse pagate dalle imprese straniere. Certo quest’ultimo punto è delicato, perché bisognerà giocarsela a livello internazionale, ma i problemi sono fatti per essere affrontati e risolti, non per dare buttare la spugna prima ancora di aver cominciato a combattere.

Concludendo: (1) eliminazione delle accise sui carburanti, (2) riduzione dell’IVA al 19%, (3) lotta alla grande evasione fiscale, (4) ridefinizione delle regole per la tassazione delle imprese estere. Nessuna di queste cose tuttavia verrà fatta perché richiederebbe onestà, competenza e coraggio, tre virtù di cui la nostra classe politica decisamente difetta. Almeno, sappiatelo: ce l’avremmo potuta fare.

Commenti (1) a «Una ricetta per la crescita»

  1. Maurizio Gentile ha detto:

    Sono oramai decenni che se ne parla, almeno 5-6 governi hanno fatto finta di risolvere il problema ma nessuno di questi criminali ingordi gli interessa veramente di risolvere questo problema anche perché non va a intaccare le loro tasche da 20mila euro in su al mese, semplicemente la politica va eliminata tutta da tutte le fazioni solo così le cose cambieranno le decisioni in mano al popolo.

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