Il modo facile e quello difficile



Sono passati più di quindici mesi da quando scrissi «Ma è davvero necessario continuare a crescere?». In quell’articolo mi ponevo il problema se fosse davvero quello di una crescita economica continua il modello da perseguire, o piuttosto fosse meglio realizzarne uno incentrato sulla qualità della vita e il soddisfacimento dei bisogni fondamentali di tutti. La mia conclusione fu che l’attuale sistema fosse di fatto insostenibile, sia perché le risorse a disposizione sono comunque limitate, sia perché questo modello crea un divario economico sempre più esteso, spostando la ricchezza e il potere nelle mani di sempre meno individui e impoverendo tutti gli altri. Credo sia qualcosa che potete toccare con mano tutti i giorni, ormai.

In questo articolo vorrei invece focalizzarmi sulle aziende e sul fatto che anche in un’ottica di crescita, esista comunque un modo giusto e uno sbagliato di realizzarla. Ovviamente quello giusto è il modello “difficile”, perché confligge con gli interessi di una minoranza d’individui che tuttavia detiene la maggioranza della ricchezza del pianeta.

Per un’azienda, crescere vuol dire aumentare il fatturato, il profitto, la quota di mercato posseduta, ampliare il portafoglio d’offerta di prodotti e servizi ed espandere le attività produttive e commerciali in altri Paesi. Tutto ciò, se fatto correttamente, non solo arricchisce l’azienda, ma anche coloro che ci lavorano e chiunque collabori con essa, creando un indotto su tutto il territorio. Ovviamente questo implica politiche di ridistribuzione degli utili che tengano conto di tutta la filiera di produzione, non come spesso succede, premiando solo una classe manageriale ristretta che sfrutta le risorse interne e il territorio circostante impoverendoli a proprio vantaggio.

Per crescere in modo sostenibile, è necessario innovare in continuazione l’offerta da immettere sul mercato. Innovare vuol dire fare ricerca, sviluppare nuovi prodotti e servizi, ottimizzare i processi e l’organizzazione, incentivare la creatività, essere più efficienti al proprio interno ed efficaci sul mercato. Tutto ciò crea valore: valore per l’azienda, valore per i lavoratori, valore per i fornitori, valore per i consumatori. L’innovazione può essere molto contagiosa e porta spesso altre aziende a essere a loro volta innovative in un circolo virtuoso che migliora a tutti la vita.

Un’azienda di questo tipo cresce perché il mercato apprezza l’immissione continua di innovazione e quindi è disponibile a investire in essa. Analogamente i consumatori acquistano i nuovi servizi e prodotti perché ne traggono un beneficio reale. Inoltre un’azienda di questo tipo non solo sfrutta in modo sostenibile le risorse ma può addirittura generarne di nuove, proprio grazie all’innovazione.

Ebbene, questo che ho appena descritto è il modo giusto di crescere per un’azienda ma è anche il modo più difficile e infatti sempre meno aziende vi ricorrono.

Esiste poi il modo facile, quello che dà un immediato vantaggio ed è più semplice da realizzare, ma che ha costi molto pesanti per la società. Dato tuttavia che questi costi ricadono su tutti mentre i benefici di questo approccio vanno solo ad alcuni, sempre più aziende, anche di grosse dimensioni, ovvero proprio quelle che avrebbero le risorse per essere innovative, vi ricorrono.

Il modo facile sfrutta una serie di “trucchi” che spingono il consumatore a ricomprare spesso gli stessi prodotti. Il più noto è quello dell’obsolescenza programmata, ovvero il prodotto viene disegnato per diventare obsoleto in tempi molto brevi, generalmente poco dopo lo scadere della garanzia. Questo si può fare in molti modi, anche senza bisogno di ricorrere a tecnologie sofisticate. Se consideriamo ad esempio un oggetto, è sufficiente individuare una componente chiave e assicurarsi che essa si rompa o si usuri in modo irrimediabile dopo un certo tempo. Per far questo basta disegnare la componente in un certo modo oppure usare un materiale con una qualità ben definita. Facendo varie prove è possibile arrivare a programmarne la rottura o l’usura in modo quasi preciso. Se poi la componente viene integrata nel prodotto in modo che non sia facile o conveniente sostituirla, i costi di riparazione sono tali da incentivare l’acquirente a buttare il prodotto e comprarne uno nuovo. Quando il prodotto ha anche componenti elettroniche, si può arrivare a programmare al secondo il momento in cui deve smettere di funzionare, tanto le istruzioni sono in un microcircuito integrato che non può essere acceduto o aperto senza distruggerlo.

Per rendere ancora più efficace la tecnica, è inoltre sufficiente far sì che il nuovo modello abbia una serie di caratteristiche che siano incompatibili con gli accessori di quello vecchio così che non solo venga buttato l’oggetto in questione, ma anche tutti gli accessori e gli altri prodotti che erano stati acquistati per integrarli con quello principale, benché ancora perfettamente funzionanti. Inoltre si può realizzare in parallelo una campagna promozionale che illustri le meravigliose qualità del nuovo modello, in modo da creare l’impressione che quello vecchio non sia più adatto a svolgere il compito per il quale era stato acquistato. Alla fine il consumatore compra un nuovo prodotto nel quale spesso le novità sono del tutto secondarie e che nelle sue caratteristiche principali non si discosta così tanto da quello che si era guastato.

Meccanismi analoghi possono essere utilizzati anche per i servizi. In genere ci sono due metodi: uno è quello di legare il servizio a un prodotto fisico, come si fa con quelli di manutenzione. A questo punto basta far sì che il prodotto si guasti con una certa regolarità per giustificare il servizio in questione; l’altro consiste nel cambiare in continuazione la normativa che regola il servizio, adattandone ovviamente di conseguenza il prezzo. Sfruttando clausole vessatorie e facendo leva su bisogni effettivi del cliente, ci si assicura il rinnovo del contratto anche perché spesso in questo campo si formano veri e propri cartelli che rendono difficile, poco conveniente o di fatto inutile cambiare operatore.

È evidente quali siano i danni che questo approccio genera: innanzi tutto si fa spesso passare per innovazione qualcosa che è un semplice rifacimento o rivisitazione del modello precedente. La vera innovazione non sta infatti nel rendere più capiente o più veloce un certo prodotto, ma nel cambiare paradigma, ovvero svilupparne uno davvero nuovo: la novità può essere tecnologica, estetica, di usabilità, funzionale… dipende ovviamente dalla tipologia di prodotto. Chi invece usa il “modo facile”, si limita a cambiare la percezione del prodotto o a rendere appunto inutilizzabile quello vecchio. C’è anche da considerare che spesso usiamo solo una piccola parte delle caratteristiche di un prodotto e che quelle che ci hanno convinto a comprare il nuovo modello sono a volte proprio quelle che finiamo per non utilizzare.

Un’altra conseguenza del “modo facile” è lo spreco, ovvero il fatto che si fa “produzione per la discarica”: in pratica si sfruttano risorse sempre più scarse per produrre rifiuti che spesso non conviene riciclare o che non sono riutilizzabili. Per giunta, per tenere bassi i costi di produzione, si sfruttano i lavoratori di Paesi del Terzo Mondo o si usano materiali sempre più scadenti e processi di controllo della qualità con maglie sempre più larghe, generando quindi povertà al di fuori dell’azienda, invece che ricchezza. Questo metodo è così sfruttato che le aziende non hanno più neanche paura di perdere clienti verso altre aziende perché quasi tutte si comportano allo stesso modo e tanti sono i clienti persi quanto quelli acquisiti perché delusi dalla concorrenza.

Concludendo: esiste un modo facile e uno difficile di crescere sul mercato per un’azienda. Il modo facile arricchisce pochi, impoverendo tutti gli altri, incluso il nostro pianeta, spesso inquinando o creando altri problemi, come quello dello smaltimento dei rifiuti. Il modo difficile invece porterebbe ricchezza a tutti, utilizzerebbe in modo sostenibile le risorse e non solo non farebbe danni ma risolverebbe molti dei problemi che affliggono il pianeta. Il problema è che sempre più aziende adottano il primo e molte di quelle che provano ad adottare il secondo sono sempre più penalizzate, soprattutto dalla concorrenza sleale delle prime. Quanto si possa andare avanti così è un’incognita ma ho il sospetto che presto arriveremo a un punto di non ritorno, se non ci siamo già arrivati.

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