Servirà o non servirà? Questo è il problema.



Stasera, 16 febbraio 2005, diventerà operativo il Trattato di Kyoto in 144 Paesi nel mondo, di cui ben 39 industrializzati. Assenti pesanti gli Stati Uniti. George Bush infatti ritiene che il protocollo in questione sia «assolutamente costoso e inefficace». Obiettivo primario del protocollo è quello ridurre l’emissione nell’atmosfera di 6 gas che si ritengono siano responsabili dell’effetto serra: l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il protossido d’azoto (N20), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC) e l’esafluoruro di zolfo (SF6).

Il protocollo di Kyoto stabilisce che i 39 Paesi industrializzati riducano le emissioni dei gas serra, entro il 2012, sotto i livelli del 1990, con percentuali variabili la cui media è il 5,2%. Per il momento i Paesi non industrializzati sono esentati da obblighi di riduzione, anche se è loro consentito partecipare attivamente agli altri meccanismi del protocollo. Questa la prima fase. Successivamente, ovvero dopo il 2012, saranno negoziati nuovi obiettivi che potrebbero includere un numero di Paesi maggiore e modificare il protocollo in base ai risultati ottenuto o non ottenuti nel periodo che va dal 2008 al 2012. Si entrerà così nella seconda fase del Protocollo.

Gli Stati Uniti hanno giustificato il rifiuto di aderire al trattato con il timore che l’applicazione di forti vincoli alle imprese possa aggravare ancora di più la fase di crisi economica che gli USA stanno attualmente attraversando. D’altra parte gli USA sono responsabili di oltre il 25% delle emissioni di gas serra, pur rappresentando solo il 4% della popolazione mondiale.

Questi i fatti. Ma come stanno realmente le cose? È vero che i cosiddetti gas serra sono responsabili del surriscaldamento del nostro pianeta? E riuscirà il trattato di Kyoto, se rispettato, ad evitare tutto ciò?

Partiamo dal primo punto. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC),« vi è una grande evidenza scientifica riguardo alla responsabilità delle emissioni di gas serra nel riscaldamento del clima terrestre registrato negli ultimi cinquant’anni». È infatti scritto nel rapporto «Climate Change 2001: Synthesis Report»:

There is new and stronger evidence that most of the warming observed over the last 50 years is attributable to human activities. Detection and attribution studies consistently find evidence for an anthropogenic signal in the climate record of the last 35 to 50 years. These studies include uncertainties in forcing due to anthropogenic sulfate aerosols and natural factors (volcanoes and solar irradiance), but do not account for the effects of other types of anthropogenic aerosols and land-use changes. The sulfate and natural forcings are negative over this period and cannot explain the warming; whereas most of these studies find that, over the last 50 years, the estimated rate and magnitude of warming due to increasing greenhouse gases alone are comparable with, or larger than, the observed warming.

Se la tendenza dovesse essere confermata, quindi, la temperatura della Terra dovrebbe salire tra 1,4°C e 5,8°C entro la fine del secolo. Come già evidenziato in un altro articolo — sempre su questo blog — «Ghiacci bollenti», si potrebbero avere effetti devastanti su alcuni meccanismi importanti per il clima del pianeta.

In effetti, sebbene in passato si siano verificati già aumenti considerevoli della temperatura del pianeta, ovviamente non legati a cause antropiche, ci troveremmo comunque di fronte al riscaldamento più rapido e più sostenuto degli ultimi 10.000 anni. Fra i possibili effetti, la desertificazione di molte zone semiaride e la drastica riduzione dei terreni coltivabili in molti Paesi del mondo e il blocco del nastro trasportatore che garantisce un clima moderato all’Europa e alla costa orientale del Nord America.

Ma il trattato ci aiuterà a scongiurare tutto questo? Sappiamo per certo che negli ultimi 20.000 anni si sono verificate moltissime variazioni climatiche repentine capaci di modificare in un solo decennio la temperatura di 10°C e anche di più. E allora? Quanto effettivamente siamo responsabili noi del surriscaldamento del pianeta e quanto dipende da meccanismi ancora non ben compresi ma di cui abbiamo evidenza in periodi nel quale l’uomo non era certo in grado di alterare il clima del pianeta? A meno di non rifarci a un atto di fede, l’unica risposta seria è «non lo sappiamo».

E allora bisogna ragionare in modo diverso. Quant’è la probabilità che l’uomo abbia una qualche responsabilità in quello che sta succedendo al nostro pianeta? E se quello che sta succedendo non dipende da noi, quanto l’emissione di gas serra può far precipitare una situazione che ha comunque cause naturali? Quanto dev’essere questa probabilità per ritenere opportuno intervenire? 10%? 30%? 50%? Perché se una responsabilità esiste, anche parziale, è adesso che dobbiamo intervenire, non attendere che succeda l’inevitabile. Una volta infatti che determinati meccanismi dovessero bloccarsi, farli ripartire non sarà questione di pochi anni. Il costo potrebbe essere considerevole, anche in vite umane.

Ma hanno ragione a preoccuparsi gli USA? Possono le condizioni del trattato creare una crisi interna che avrebbe poi ripercussioni anche a livello internazionale? Per quanto possa sembrare assurdo in effetti anche questo è vero, tant’è che nello stesso trattato non è stato posto alcun vincolo a Paesi come la Cina e il Brasile che, pur aderendo, non hanno alcun obbligo a intervenire sulle loro emissioni. Eppure sono proprio Paesi come Cina, India e Brasile che nei prossimi anni diventeranno fra i più grossi produttori di gas serra. Si calcola che, nel 2050, essi saranno responsabili del 75% delle emissioni. La loro economia, infatti, è in forte crescita, ma anche estremamente fragile, e non sarebbe in grado ora di sopportare i costi di una riduzione significativa delle emissioni. Così fin da adesso Cina, India e altri Paesi in via di sviluppo, hanno manifestato l’intenzione di non entrare nel sistema degli obblighi nemmeno in una eventuale seconda fase del Protocollo di Kyoto.

Se quindi è vero che gli Stati Uniti pecchino di egoismo, dato che al contrario la loro economia è comunque forte, e sicuramente qualcosa di più potrebbero farlo, è anche vero che i meccanismi previsti dal Trattato, come ad esempio il Clean Development Mechanism, che ha lo scopo di contabilizzare l’eventuale riduzione delle emissioni da parte di Paesi emergenti ripagandoli del loro sforzo attraverso fondi stanziati da quelli industrializzati, potrebbero non dare sostanzialmente alcun risultato. Aderire al Trattato ha comunque un costo non indifferente. Uno studio UNICE valuta il prezzo del Trattato sul clima in una perdita annuale dello 0,5% del PIL europeo, mentre una stima dell’International Council for Capital Formation calcola la riduzione del PIL, da qui al 2025, attorno al 2,9%, pari alla distruzione di quasi 280 mila posti di lavoro all’anno.


Vignetta di JONATHAN SHAPIRO © 2003-2005

Resta un fatto. Chi oggi aderisce al Protocollo si appresta, almeno nei 39 Paesi industrializzati, a pagare un conto molto salato per questi interventi che richiederanno pesanti sacrifici a tutti, non solo economici, ma anche relativi alla qualità della vita e ad abitudini consolidate che forse non ci potremo più permettere. Se questi sacrifici li faranno solo alcuni, questo potrebbe creare una certa tensione nei confronti di quei Paesi che, a torto o a ragione, non sono disposti ad affrontarli. Non mi stupirebbe quindi se qualche Paese, prima o poi, si troverà a dover introdurre qualche meccanismo di tassazione delle importazioni provenienti da quei Paesi che non hanno aderito al Trattato come gli USA, per ridurre l’aggravio sulla popolazione locale, già oberata di tasse e con un’economia che non decolla. D’altra parte, se gli USA ritengono che la loro economia debba essere protetta al punto da non fare neanche il minimo sforzo per venire incontro a chi invece sta cercando di limitare i possibili danni, perché noi non dovremmo fare altrettanto, ovvero, rispettare il Trattato cercando tuttavia di non gravare completamente sulla nostra economia ma facendo pagare anche agli USA un qualche prezzo? Dopotutto loro i gas li emettono in un’atmosfera che è anche nostra, o no?

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Commenti (7) a «Servirà o non servirà? Questo è il problema.»

  1. Gnash ha detto:

    Stanotte stavo pensando proprio a questo tema, e mi sono chiesto: .

    Cos’è, telepatia? 🙂

    A presto un commento.

  2. utente anonimo ha detto:

    J.B. questa volta non ha torto.Ma solo delle pesanti responsabilità.Il protocollo è ambizioso.Ma gli Stati Uniti riusciranno a farlo fallire nei suoi obiettivi.Assieme ai loro complici.Visto che se non sbaglio nenache Cina e India hanno aderito.Per non parlare di quelli come noi.Applicarlo in Italia.Mi viene da ridere.

  3. utente anonimo ha detto:

    Dimenticavo.Di farmi riconoscere.

  4. Dario de Judicibus ha detto:

    Non credo che il protocollo fallirà a causa degli USA. Come già detto il loro “contributo” è del 25%, mentre quello di India, Cina e Brasile sarà in pochi anni del 75%. Inoltre non sappiamo quanto di questi gas siano responsabili della situazione climatica attuale. Potrebbero essere solo un fattore di accelerazione. L’attuale riscaldamento non è incompatibile con analoghi eventi successi in passato. Il che ovviamente non ci autorizza a rovinare l’atmosfera del nostro pianeta, naturalmente. Vedremo.

  5. RagAzZoiNferNaLE ha detto:

    Non da soli.Infatti.

  6. utente anonimo ha detto:

    Scusate, ma quando si parla di ecologia, gas serra, situazione ambientale etc, ci si dimentica sempre di parlare di popolazione, anzi, di sovrappopolazione.

    Sembra che Malthus non lo conosca nessuno e, ripeto, nessuno.

    E’ davvero così?

    O forse l’argomento è troppo scorretto politicamente, non si può ?

    Ma non sarebbe un pò come fare i conti senza l’oste ( e non basterebbe farli due volte) ?

    Red.

  7. Dario de Judicibus ha detto:

    Red, dai un occhio al mio articolo intitolato Perché siamo così tanti e alla serie di commenti che ha scatenato…

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