Cittadelle dello sport



Mancano un paio di giornate alla fine dei Giochi Olimpici di Pechino e come di consueto i vari giornali e telegiornali italiani inizieranno a tirare le somme di quest’avventura. Si esalteranno gli eroi e si scateneranno mille polemiche e dibattiti sulle delusioni, su quello che avremmo potuto fare, sul perché e sul dove abbiamo perso. Nessuno sa ancora quale sarà la posizione finale dell’Italia nel medagliere olimpico, ma difficilmente il nostro Paese ripeterà l’exploit di Atene 2004, con 10 ori e un totale di 32 medaglie conquistate. Per qualcuno quella di Pechino 2008 sarà stata una delusione, altri ancora sorrideranno e affermeranno che siamo — o almeno si spera di rimanerlo — fra i primi dieci Paesi del mondo.

La verità è che tutto questo non ha la minima importanza.

Quello che questi giochi, come già i precedenti ci avrebbero dovuto insegnare, ma evidentemente non l’hanno fatto, è che il nostro Paese è assolutamente incapace di capitalizzare i talenti che, spesso con enormi sacrifici personali, hanno sempre in qualche modo tenuta alta la bandiera italiana nel mondo dello sport.

I risultati degli atleti italiani alle Olimpiadi, così come nei campionati mondiali ed europei delle varie discipline, sono sempre stati risultati personali, individuali e di squadra, ma comunque personali, ovvero degli atleti stessi. Così non è in Paesi come gli Stati Uniti o la Cina, dove lo sport è veramente sostenuto dallo Stato sia in termini di infrastrutture che di finanziamenti.

Da noi, invece, la maggior parte dei finanziamenti vanno al calcio, delizia e tortura di un Paese che ha fatto del tifo sfegatato e fideistico il suo vero sport. Alcune discipline non hanno neppure una struttura decente in tutto il Paese, tanto che quando vinciamo qualche medaglia in sport dei quali, durante i quattro anni che intercorrono tra un’Olimpiade e un’altra, mai nessuno parla, ci stupiamo meravigliati e scopriamo atleti che hanno vinto campionati e magari persino mondiali nel più totale anonimato o quasi.

Non è la prima volta. Alcune delle medaglie d’oro del passato non avevano a momenti neppure di che pagare l’affitto e si allenavano come e dove potevano in quel poco tempo libero che il lavoro lasciava loro. Uno scenario distante anni-luce da quei professionisti del calcio o del tennis che purtroppo da molti anni sono stati ammessi ai Giochi, una volta intesi davvero solo per chi dello sport non faceva una professione.

Purtroppo, se allenarsi senza strutture e di tasca propria è possibile o quasi per alcuni sport come la marcia, questo non vale in quegli sport che richiedono attrezzature e strutture specifiche, spesso tecnologicamente avanzate. Senza arrivare ai costumi supertecnologici del nuoto moderno, basti pensare a quanto possa costare un’asta moderna per il salto con l’asta o le ruote lenticolari di una bicicletta per le gare indoor su pista. Senza contare che di piste per quel tipo di gare così come di campi e strutture per sport diversi dal calcio in Italia ce ne sono davvero poche, e un atleta che davvero vive solo del suo lavoro e non è uno sportivo professionista non può certo recarsi tutti i giorni in un’altra città o magari in un’altra regione per allenarsi.

Ci sono gare, inoltre, che richiedono oggi ricerche molto avanzate nel campo della biomeccanica, nello studio dell’anatomia umana, delle tecniche più efficaci per sviluppare un movimento e raggiungere un certo risultato. Un esempio ne è l’atletica, soprattutto le gare di velocità. A parte poche eccezioni quali può essere un Bolt, le gare dei 100 e 200 metri traggono oggi grande vantaggio dalla ricerca tecnologica.

Infine c’è il discorso delle "scuole". Oggi ci sono atleti che gareggiano fino a 40 anni e più, ma questo vale solo in alcune discipline. Gli ori di oggi potranno forse esserlo anche nelle prossime olimpiadi, ma senza un vivaio che sia pronto a sostituirli, rimarranno casi isolati buoni solo per gli archivi sportivi dei giornali. È quindi necessario capitalizzare l’esperienza e la competenza acquisita per evitare che vada perduta, come purtroppo è successo per quasi tutte le gare sulle lunghe distanze dove, in passato, abbiamo avuto grandissimi campioni. Per creare una scuola ci vuole tempo e soprattutto ci vogliono soldi e strutture. Gli ori di oggi possono diventare l’elemento trainante delle nuove leve ma questo non può avvenire per caso. Va pianificato. Altrimenti i nostri medaglieri saranno sempre il risultato di nuove comete che presto spariranno all’orizzonte senza trovare quel seguito e quella continuità con le quali si costruiscono davvero le nazioni dello sport, quelle grandi.

Chi esce quindi sconfitto da queste Olimpiadi è il nostro Paese, un Paese dove sport è sinonimo di calcio, che ci viene propinato in tutte le salse possibili ogni minuto del giorno. Già adesso, a pochi giorni dalla fine delle Olimpiadi, i gossip e i pettegolezzi su calciatori e squadre stanno riconquistandosi lo spazio perduto sui giornali e nei telegiornali. Tra dieci giorni delle Olimpiadi non si ricorderà più nessuno.

Guardiamoci intorno. Nei nostri quartieri c’è un campetto di calcio ogni cento metri. Ma dove sono quelli di pallavolo, pallamano, pallacanestro? Dove le piscine, magari con un settore dedicato ai trampolini e alle piattaforme? Chi gioca a tennis tavolo lo fa ancora nelle parrocchie, e la vela è uno sport quasi sconosciuto in un Paese con i tre quarti di confini che sono coste. In quanto al tennis, al golf e a molti altri sport che ormai in altri Paesi sono assolutamente popolari, in tutti i sensi, da noi sono riservati a chi se li può permettere, segregati in impianti sportivi e club privati il cui accesso è consentito a pochi. Viene da pensare quanti altri potenziali campioni il nostro Paese avrebbe potuto generare se fosse stata data loro anche una sola opportunità!

Cosa fare, allora? Dobbiamo creare più strutture, magari sacrificando qualche campo di calcio per far loro posto. Dobbiamo creare una cultura dello sport che non sia solo calcio e che non sia soprattutto solo tifo. Dobbiamo dare visibilità e sostegno a quegli atleti che dimostrano di saper vincere, di qualsiasi disciplina. Non ci devono essere sport di serie B. Ogni sport conta, dalla canoa alla tavola a vela, dal lancio del peso al salto triplo, dalle arti marziali al bob, dal tiro con l’arco al canottaggio. Già, perché fra due anni ci sono quelle invernali di Olimpiadi. Se non fosse per le Alpi e per le regioni del nord, noi neanche parteciperemmo. Ma perché un napoletano o un siciliano non dovrebbe poter diventare un campione di sci o di pattinaggio? In Giappone hanno costruito piste artificiali per sciare assolutamente incredibili, e una struttura per il pattinaggio su ghiaccio si può costruire ovunque, anche ai tropici.

Abbiamo due anni per gli sport invernali. Troppo poco. Ma ne abbiamo quattro per Londra 2012. Per quei giochi possiamo e dobbiamo fare qualcosa. Se questo Paese ci tiene davvero a fare bella figura, deve cambiare radicalmente approccio allo sport. Innanzi tutto deviare una parte consistente dei finanziamenti che vanno al mondo del calcio — troppo e immeritevolmente ricco — verso gli altri sport. Quindi iniziare a costruire strutture per ogni possibile disciplina, possibilmente distribuite in modo sufficientemente uniforme sul territorio. Per ottimizzare e mantenere bassa la spesa è importante poi da una parte avvalersi anche di capitali privati, ovvero trovare degli sponsor permanenti, dall’altra creare delle vere e proprie cittadelle dello sport in modo da centralizzare la logistica e le strutture di supporto.

Sfruttando impianti preesistenti, vecchie aree industriali e altri edifici non più utilizzati, si possono realizzare in ogni regione, forse persino in ogni provincia, dei quartieri sportivi dotati di strutture logistiche come mense, docce e dormitori, aule per l’istruzione teorica, laboratori di ricerca medica indirizzati all’agonismo, e ovviamente piste, campi, piscine e quant’altro possa servire. Una specie di università dello sport con tanto di alloggi per istruttori e allievi, borse di studio, e quant’altro possa trasformare un popolo di tifosi appassionati del divano in veri sportivi.

E il calcio? Beh, forse potrebbe anche essere la volta buona che il mondo del calcio possa imparare qualcosa su cosa voglia dire essere uno sportivo e cosa sia lo spirito olimpico. A mio avviso una buona cura dimagrante non potrebbe che far bene al nostro "sport nazionale".

Commenti (2) a «Cittadelle dello sport»

  1. vinny81 ha detto:

    hai perfettamente ragione in italia esiste solo il calcio. ci sono sport come la sciabola, la lotta libera, il pugilato che sono visti come sport minori. eppure le medaglie sono arrivate da li’

  2. LEXDC ha detto:

    beh io preferisc o il basket. ricordo che alle medie inferiori la scuola ci presentava gli sport minori, atletica e scherma. I miei figli non hanno conosciuto niente di tutto ciò nel 2008! tanto che vedendo le Olimpiadi mi chiedevano come facevo a sapere le regole dei vari sport … in più (per confermare la potenza della tv) i miei ragazzi conoscono le regole di baseball e rugby … fate voi!

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