Eutanasia e dintorni



Si sta discutendo molto di eutanasia in questi giorni. Molti giornali ed emittenti propongono dibattiti sia sui media tradizionali che in rete. Ho voluto provare ad affrontare il problema da un altro punto di vista e questo è stato il risultato. Giudicate voi.

Credo che il problema fondamentale non sia se essere contro o a favore dell’eutanasia, ma fino a che punto abbiamo il diritto di disporre della vita degli altri, ovvero se è giusto che una legge, che altro non è se non l’espressione indiretta della maggioranza della popolazione, in quanto votata da chi da tale popolazione è stato eletto, possa stabilire cosa un adulto possa fare della propria vita. Può vivere alla giornata senza una fissa dimora? Può drogarsi? Può prostituirsi? Può sposare qualcuno del suo stesso sesso? Può uccidersi o chiedere di essere ucciso, se non è in grado di farlo autonomamente?

Per poter rispondere a questa domanda, dobbiamo chiederci innanzi tutto quali sono i principi fondamentali che regolano questa società, o comunque la società che vorremmo che fosse. Per chiarire, se la nostra fosse una società religiosa assolutamente integralista, nella quale non solo la vita in sé, ma lo stesso corpo, in quanto creato da Dio a Sua immagine e somiglianza e destinato a racchiudere in sé l’anima, è da considerare sacro, probabilmente non dovremmo accettare non solo l’eutanasia, ma neppure qualsiasi forma di automutilazione, quale ad esempio il piercing, fino ad arrivare a negare persino la possibilità di trapiantare un organo. Di contro, se la nostra fosse una società liberista all’estremo, tanto da ridurre al minimo l’influenza dello Stato sulle scelte individuali, al limite dell’anarchia, ovvero con quel minimo di regole sociali senza le quali la società stessa non potrebbe esistere in quanto tale, allora forse neppure la pedofilia verrebbe vista come inaccettabile.

Ho scelto volutamente due estremi nei quali probabilmente la maggior parte di noi non si riconosce, anche se ognuno di noi altrettanto probabilmente potrebbe vedersi più orientato a un modello che all’altro. Ad esempio, non mi risulta che la Chiesa cattolica sia contraria ai trapianti d’organi e alle trasfusioni, seppure esistano religioni che rifiutano questo tipo di tecniche terapeutiche, così come il fatto di essere liberista non mi risulta renda più accettabile la pedofilia, sebbene esistano gruppi di persone che si spingono a tanto. Rimane tuttavia il fatto che fintanto che non chiariamo quali siano i principi a cui rifarci, è ben difficile che questa società possa dare una risposta univoca a questa come a tante altre domande: l’eutanasia, come la questione sulla liberalizzazione delle droghe, l’eventuale riapertura delle cosiddette case chiuse, il matrimonio fra omosessuali come altre forme non tradizionali di convivenza, rimarrebbero fonte di dibattito rischiando di ritrovarsi in quel limbo nel quale la legge dice una cosa ma nei fatti se ne tollera un’altra.

Un esempio lo abbiamo avuto con l’aborto: molti pensano che in Italia esista una legge che permetta l’aborto, ma in realtà tale legge lo permette se e solo se si verificano determinate circostanze. La legge 194 del 22 maggio 1978, dice infatti che «l’interruzione volontaria della gravidanza … non è mezzo per il controllo delle nascite» e che entro i primi novanta giorni di gravidanza, l’aborto è ammesso se sono constatabili «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito», mentre oltre i novanta giorni solo se «la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna» o «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.» La realtà tuttavia è differente e non sono pochi i casi in cui si permette di abortire semplicemente perché si è deciso di non avere più quel figlio, sebbene non sussistano le condizioni di cui sopra.

A questo punto la domanda che dobbiamo porci è: «esistono dei principi comuni che siano condivisi dalla maggior parte della nostra società e che ci permettano di discriminare cosa sia accettabile e cosa no in relazione a queste delicate problematiche sociali»? Mi sembra evidente che se consideriamo quanto variegata sia oggigiorno la nostra società, la risposta rischia di essere sconfortante, dato che sicuramente un insieme di principi comuni esiste, altrimenti non potremmo parlare di una società unica, ma probabilmente questo insieme è troppo ristretto per essere realisticamente utilizzabile e comunque esistono sempre troppi distinguo e interpretazioni di ogni principio per poter arrivare a una risposta soddisfacente per tutti. Proviamoci comunque, e vediamo fino a dove riusciamo ad arrivare.

Prima questione: «fino a che punto io ho diritto di costringere gli altri a seguire i miei principi, la mia fede, le mie credenze»? Domanda complessa, anche perché alcune fedi e religioni stabiliscono a priori che è dovere del credente fare quanti più proseliti possibile, se non addirittura combattere gli infedeli. Rischiamo di ritrovarci con una tautologia o comunque una contraddizione in termini. Ma se la nostra è una società nella quale hanno diritto di cittadinanza tutte le fedi e religioni, allora per definizione ogni fede deve rispettare le altre, o la mancanza di fede, altrimenti logica vorrebbe che la società si spezzi in più componenti, ovvero chi è disponibile a tollerare chi ha credenze differenti e coloro che fanno del proprio credo una legge incompatibile con gli altri. Dunque, fintanto che un individuo accetta di stare in una società multi-culturale come è la nostra attualmente, non può pretendere di poter applicare i propri principi agli altri. Da qui consegue che qualsiasi decisione stia alla base di una legge, non può e non deve essere ispirata da una singola fede, ma essere il risultato di considerazioni oggettive su cosa possa essere utile e cosa dannoso per la società stessa.

Stabilire questo non è cosa da poco. Se eliminiamo l’aspetto fideistico dal dibattito, molte questioni si semplificano in maniera significativa. Qualcuno a questo punto dirà di non essere disponibile a non fare dei principi della propria fede legittima argomentazione nel dibattito sociale, ma a questo punto, avendo accettato come postulato la coesistenza di culture e fedi differenti nella stessa struttura sociale, la nostra risposta non può essere che una: «la sua è una posizione legittima e comprensibile, ma che allora sia coerente e lasci questa società, perché tale decisione è incompatibile con la sua stessa natura multi-culturale». In pratica, il solo fatto di essere in una società multi-culturale ci impone di non imporre agli altri i nostri principi.

Detto così, tuttavia, rischiamo di spostarci rapidamente verso l’estremo opposto. Cosa impedirebbe infatti a un gruppo di persone di fondare una fede, di definire un’ideologia, di stabilire un modus vivendi nel quale la pedofilia, magari anche incestuosa, è non solo legittima, ma ampiamente praticata? Risulta evidente che il principio sopra stabilito non possa da solo essere sufficiente. Dobbiamo allora chiederci come contenerlo, per evitare che venga portato agli estremi. Possiamo farlo introducendo il concetto di scelta consapevole. Abbiamo parlato di principi, di fedi, di religione, ma tutto ciò ha un senso quando lo scegliere a quali principi conformarsi è il risultato consapevole di una scelta. Così come infatti noi non possiamo imporre i nostri principi agli altri, così dobbiamo stabilire il fatto che il seguire un principio non sia un accidente, quale l’essere nato in una certa famiglia o in un determinato luogo, ma il risultato di una scelta fatta nella consapevolezza che esistono delle alternative. Ecco allora il secondo principio: il seguire o meno un principio deve essere il risultato di una scelta consapevole.

Anche qui abbiamo un problema tuttavia. Si può parlare di scelta consapevole per un bambino di sei anni? È giusto o no che in una famiglia che segue una determinata fede i bambini vengano educati a quella stessa fede? È evidente che ci deve essere un criterio di discriminazione fra chi ha il diritto di fare una scelta e quando invece tale scelta debba essere fatta da altri. Non è solo questione di età: il discorso può valere anche per determinate disabilità mentali, o per situazioni specifiche tipiche di una vecchiaia molto avanzata. In pratica, si tratta di dividere la società in due grandi categorie: chi ha il diritto di scegliere e chi, per tutta una serie di circostanze, non può ancora (o più) farlo. Non intendo entrare in merito di quali debbano essere i criteri per stabilire tale divisione, tanto più che potrebbero essere differenti anche in funzione del tipo di scelta da fare. Ad esempo, si può votare per la Camera a una certa età e per il Senato a un’altra, si può guidare una moto sotto una certa cilindrata se si hanno certi requisiti, e una più potente se se ne hanno altri. Non è importante al fine delle considerazioni che stiamo facendo: quello che è importante è che comunque esista tale discriminante e che quindi i due principi che abbiamo stabilito, quello della non imposizione e quello della scelta consapevole, si applichino direttamente solo a una parte della società e per interposta persona (il tutore) alla parte rimanente. A volte ci si riferisce a questo principio utilizzando termini come maturità, o capacità di intendere e di volere. Diciamo che la maggior parte di coloro che vivono in questa società hanno il diritto a fare delle scelte, ovvero all’autodeterminazione, sono cioè considerati idonei a scegliere.

Ma se chi ha i requisiti per fare delle scelte ha il diritto di farle consapevolmente ma non di imporle ad altri, allora quando lo Stato, che tutti ci rappresenta e che altro non è che il riflesso della nostra stessa volontà, ha il diritto di imporci scelte che non condividiamo? Rimane un aspetto da considerare: le conseguenze di una scelta. Se una scelta che faccio può danneggiare altri individui, allora quella scelta non mi dovrebbe essere permessa o quantomeno lo dovrebbe solo se si pongono le condizioni affinché le sue conseguenze negative non si verifichino o vengano sufficientemente contenute. Consideriamo le droghe: non quelle leggere, ma quelle pesanti, quelle che alla fine ti mandano in pappa il cervello, ti indeboliscono il fisico e spesso, direttamente o indirettamente, ti portano alla morte. Ho il diritto di drogarmi? Quali potrebbero essere le conseguenze? Dipende. Se ho una famiglia e dei figli e mi faccio di acido o sono un alcolista, metto a serio rischio la stabilità economica della mia famiglia, le relazioni affettive, la sua stessa esistenza. Chi è responsabile di altre persone deve mettere in conto tutta una serie di limitazioni alle sue libertà personali. Questo è il concetto stesso di responsabilità che lo impone. Ovviamente, per quanto detto in precedenza, è importante che la responsabilità di altri sia il risultato di una scelta, non di una imposizione. Ecco perché, ad esempio, si dovrebbero educare le persone al fatto che i figli si fanno, non nascono così, per accidente.

Ha quindi il diritto di bucarsi una donna incinta? Di bere pesantemente un padre di famiglia? La risposta, a mio avviso, è no, e non perché drogarsi o bere siano condannabili per questa o quella fede o ideologia, ma perché le conseguenze sono un danno oggettivo ad altre persone. Certo, anche il drogarsi di un individuo senza responsabilità particolari può rappresentare un danno in quanto rappresenta un costo sociale, ma questo può essere gestito. Vuoi bere? D’accordo, però non guidi, perché potresti ammazzare oltre te stesso anche qualcun altro. Si tratta solo di stabilire delle regole per minimizzare le conseguenze di determinate scelte. In fondo lo facciamo già: esistono tante attività sportive potenzialmente pericolose e che portano molte persone alla morte o in ospedale ogni anno. Forse che proibiamo le corse automobilistiche o il pugilato? Eppure la gente si fa seriamente male praticando attività di quel tipo: si stabiliscono dei regolamenti e si accetta un certo costo sociale quale prezzo per una maggiore libertà individuale. Dopo tutto, se il prezzo per vivere in una società fosse la rinuncia alla nostra individualità, perché dovremmo farlo? Che vantaggio ne trarremmo?

Ecco allora che in aggiunta ai principi di non imposizione, di scelta consapevole e di idoneità a scegliere, abbiamo stabilito un quarto principio: il diritto degli altri a proteggersi dalle conseguenze delle nostre scelte attraverso l’imposizione di limitazioni, ovvero un principio di salvaguardia. A questo punto torniamo all’eutanasia. Una persona è bloccata in un letto di ospedale a causa di un male terribile che la fa soffrire e che le impedisce di muoversi. Tuttavia è consapevole di tale stato ed è in grado di intendere e di volere. La sua morte non impone alcunché ad altri, dato che la stessa famiglia è d’accordo e non desidera che continui a soffrire, pur amandolo moltissimo. D’altra parte la sua morte non danneggerà certamente la famiglia, né sul piano economico né su quello affettivo, sebbene la morte di chi amiamo sia sempre e comunque un momento di sofferenza. Abbiamo rispettato quindi il principio di non imposizione e contemporaneamente quello relativo alle conseguenze e siamo coscienti che un’eventuale scelta da parte di quell’individuo è assolutamente consapevole. Rimane l’idoneità: certo, è un individuo che dipende da altri per molti aspetti, ma sicuramente non per quello mentale. È adulto, sa bene qual è l’alternativa, avendola vissuta per anni: chi altri potrebbe decidere per lui? A questo punto la scelta è inevitabile: quell’uomo ha il diritto di scegliere di morire.

Lo stesso discorso vale per una coppia omosessuale che decide di sposarsi: sono omosessuali, comunque non potrebbero costituire una famiglia tradizionale e se lo facessero sarebbe una farsa, una finzione. Dunque, essendo individui adulti e consapevoli, in che modo la loro scelta può danneggiare gli altri? Non lo fa. Se i miei vicini di casa si sposassero pur essendo dello stesso sesso, forse che questo danneggerebbe me o la mia famiglia? Ovviamente no. Non si può neanche affermare che sarebbe un cattivo esempio, dato che io non sono omosessuale e quindi non avrei alcun motivo a seguire tale esempio, mentre se lo fossi sarei già probabilmente propenso a fare lo stesso, trovassi la persona giusta. E ancora, la prostituzione, se risultato di una scelta e non di un’esigenza. Una prostituta non sfruttata può guadagnare in un mese molto più di un dirigente d’azienda, quindi non è impensabile che alcune donne e magari anche alcuni uomini, decidano di fare una tale scelta. Qui le conseguenze da evitare sono soprattutto quelle sul piano sanitario e fiscale. Personalmente trovo piuttosto incoerente la situazione attuale. Perché? Ne parlerò in un altro articolo; adesso non è importante entrare in merito ai fini del presente discorso.

Dunque è tutto permesso? Qualunque scelta, qualunque perversione? Ovviamente no: pensiamo alla pedofilia. In questo caso uno dei due soggetti non è idoneo; inoltre la scelta non è sempre consapevole, perché anche se ci sono bambini che hanno una maggiore maturità di altri, la loro giovane età non permette loro di comprendere appieno tutte le conseguenze di un rapporto sessuale con un adulto. Attenzione: non è questione di età, come molti credono. Fino a pochi secoli fa una ragazza di quattordici anni era perfettamente papabile per un matrimonio in molte culture, compresa la nostra, e spesso tale matrimonio era con uomini già di una certa età, dato che dovevano garantire il sostentamento economico della famiglia. Quello che oggi per legge consideriamo pedofilia, una volta era assolutamente normale e accettato, sancito addirittura col matrimonio religioso. La pedofilia di cui sto parlando è quindi quella vera, quella che viola i principi di non imposizione, di scelta consapevole, di idoneità e di salvaguardia. Quindi non è accettabile. Potrei fare altri esempi: lascio a voi provare ad applicare questi quattro principi ad altre controversie sociali presenti o passate, come divorzio, aborto, sadomasochismo, coppia aperta, sedicente magia o pratiche mediche alternative. Dimenticatevi ciò in cui credete solo per qualche minuto e provate a fare questo semplice esercizio in modo del tutto neutrale, senza aspettative e senza cercare di ottenere una risposta piuttosto che un’altra. Solo per vedere cosa succede. Potrebbe risultare interessante…

Commenti (6) a «Eutanasia e dintorni»

  1. BlackMistery ha detto:

    SANGUE DI LIBERTA’

    Dove volano le stelle

    abbandonate nel cielo?

    Dove se ne va il tempo

    con tutto il mio dolore?

    Morte decisa a vivere

    per sempre nel cuore

    tra i vetri della notte

    in un sogno peggiore

    Luce chiusa nel buio

    Vita gonfia di scuse

    Morte costretta a piangere

    lacrime senza voce

    Quando potrò volare

    libero nel vento?

    Dove le stelle brillano..

    Dove inizia un nuovo cielo.

    ……………….

    Dedico questa mia poesia a chi invoca l’eutanasia come

    ricerca di pace quando il dolore da sopportare non può

    essere curato in nessun modo.

    Complimenti per il blog ^_^

    e per il Ciclo della Lama Nera!

  2. Dario de Judicibus ha detto:

    Molto bella la tua poesia.

    Complimenti!

  3. Logan71 ha detto:

    Finalmente (per lui) ha smesso di patire.

    RIP

  4. Dario de Judicibus ha detto:

    Ma lui avrebbe potuto smettere prima. Tutti sanno che l’eutanasia si pratica in questi casi in molti modi. Quello che lui voleva è che si smettesse con l’ipocrisia di farlo ma di non considerarlo legale. Voleva che la nostra società accettasse il diritto a morire.

  5. Logan71 ha detto:

    Nel nostro paese l’ipocrisia è uno stile di vita, che purtroppo è assurto a “etica” politica.

    È illegale e “non etico” mettere fine alla sofferenza di una persona imprigionata nel proprio corpo immobile, ma non è meno etico lasciarlo impazzire giorno per giorno in un corpo che diventa una gabbia. Tutti noi impazziremmo a rimanere chiusi in casa, io per primo; non oso pensare come deve essere non potersi muovere dal letto, non potersi muovere in assoluto…

    Ma sull’italica ipocrisia ci sarebbe da scrivere all’infinito… purtroppo.

  6. Dario de Judicibus ha detto:

    E sarà scritto: è da tempo che intendo scrivere un articolo e anche più di uno in tal senso. Il problema è che se non sei Beppe Grillo i blog li leggono in pochi e ciò che si dice si perde nella vastità della rete. I quotidiano hanno invaso la rete con i “loro” blog e ormai anche qui c’è chi cerca di decidere per noi cosa e quando lo si deve leggere.

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