Troppo «seri» questi registi



Prendo spunto da un interessante articolo di Daniela Sanzone pubblicato su tamtamcinema, «Soldi al Cinema: Caccia al Ladro o Caccia alle Streghe?», per affrontare il penoso discorso della competitività del cinema italiano, soprattutto nei confronti di quello americano.

Nell’articolo in questione la Sanzone ricorda come troppo spesso gli aiuti statali al Cinema Italiano non solo non hanno aiutato la sua competitività, ma hanno rappresentato in molti casi una notevole perdita di denaro, come nel caso della pellicola di Ciprì e Maresco «Totò che visse due volte», che a fronte di 109 miliardi di lire erogati dallo Stato nel 1999 incassò complessivamente appena 18 miliardi. Contemporaneamente l’autrice, tuttavia, riconosce agli aiuti statali il pregio di aver aiutato nei loro esordi registi come Nanni Moretti, Pupi Avati, Silvio Soldini, Pappi Corsicato, e Mario Martone e per aver finanziato i fratelli Taviani, Bernardo Bertolucci, Silvano Agosti e tantissimi altri.

Dopo un inizio abbastanza equilibrato e inappuntabile, tuttavia, l’articolo si schiera a difesa dei fondi statali sulla base di argomentazioni a mio avviso un po’ deboli, così come trovo debole l’affermazione della Melandri riportata in fondo all’articolo:

Sono stanca di sentire parlare di crisi. Anche se bisogna riconquistare il mercato, non mancano né idee né protagonisti. Il problema è arrivare al grande pubblico. Ci sono bei film proiettati in poche sale e per poco tempo. Ma il cinema italiano possiede ancora molte carte da giocare. E tutte buone.

L’articolo termina con una sorta di augurio o forse più con una sospensione del giudizio — «vediamo come stanno davvero le cose» — che a mio avviso rende l’articolo tronco lasciandolo di fatto incompiuto e comunque non soddisfando l’aspettativa che, almeno io, mi ero fatto man mano che lo leggevo.

A mio avviso, infatti, manca nell’articolo, così come in centinaia di altri articoli dello stesso tipo, un’effettiva analisi del perché il grande pubblico, come lo ha chiamato la Melandri, non vada a vedere i film italiani. Se si analizzano tutti questi articoli, si scopre che quasi tutti hanno in comune una caratteristica: sono scritti da addetti ai lavori o comunque da persone che fanno parte o conoscono molto bene il mondo del cinema. Cosa c’è di male? A prima vista uno potrebbe pensare che è il minimo che a parlare di un argomento sia chi di quell’argomento è esperto riconosciuto: più che doveroso. Tuttavia, se ci soffermiamo a pensare un momento a questo aspetto, ci rendiamo conto immediatamente come nel dibattito manchi del tutto un attore, ovverosia proprio quel grande pubblico che è assente anche dalle sale in cui sono proiettati molti film italiani. Perché? Non dovrebbero forse essere proprio loro a spiegare perché non vanno a vedere i nostri film? Come mai è assente proprio questo dato, chiaramente indispensabile ad un’analisi seria del problema?

Non pretendo di avere una risposta a questa domanda, né pretendo di rappresentare il pubblico italiano nel dibattito. Tutto quello che posso fare è spiegare perché io non vado a vedere certi film, o almeno lo faccio solo una volta ogni tanto e comunque quando mi trovo in un certo stato d’animo. Poi ognuno potrà confrontare questa risposta con la sua.

A mio avviso un fattore determinante è l’intrattenimento. Per gli americani il cinema è soprattutto entertainment. Cosa vuol dire? Semplice, che si va al cinema lo fa per divertirsi, per dimenticare il quotidiano, spesso stressante, a volte problematico. Si va al cinema per sognare, per lasciare questo mondo e andare in un altro, potendolo osservare da un punto di vista assolutamente privilegiato, ovvero dall’esterno, in modo da potercisi far coinvolgere senza esserne realmente coinvolti.

Ora, la domanda è: è così il nostro cinema? E qui la risposta, a mio avviso, è: nella maggior parte dei casi, no. A parte infatti poche eccezioni, delle quali parlerò più avanti, il nostro cinema si divide in due grandi categorie: da una parte ci sono i film impegnati, quelli che hanno un messaggio, una morale, che sono intrisi di impegno sociale o politico. Questo è il terreno dei registi "seri", quelli che aspirano ai vari premi e statuette. Sicuramente si tratta di un cinema ben curato, spesso con un’ottima fotografia, musiche di pregio, testi e sceneggiature impegnative, anche se non mancano le eccezioni, specialmente là dove il messaggio politico è talmente forte da far dimenticare che una pellicola è anche forma e non solo contenuto. Dall’altra c’è il cinema demenziale, quello delle battute più o meno volgari, delle supermaggiorate messe a nudo, degli attori da cabaret che se sul palcoscenico danno il meglio di sé, spesso sul set crollano miseramente. D’altra parte non tutti coloro che sono abili nel gestire uno sketch da 5 minuti sono anche in grado di reggere due ore di film.

Per assurdo, molto spesso i film demenziali hanno incassi maggiori di quelli impegnati, nonostante che oggi, vedere un seno o un sedere nudo non fa certo lo stesso effetto che faceva nell’italietta puritana di trenta o quaranta anni fa. Sulle battute, poi, stenderei un velo pietoso: molte giravano già quando io andavo alle scuole medie. Anche in questo caso è raro vedere un serio sforzo di fantasia inteso ad essere originali. D’altra parte, nella patria del voyeurismo e dei reality show di dubbio gusto, non c’è da stupire che certi personaggi stile Pierino facciano ancora ottimi incassi. Che queste pellicole siano da intrattenimento non c’è alcun dubbio. Sulla qualità dello stesso, più che dubbi ci sono certezze: a voler esser buoni al massimo si può dare a questo genere un bel quattro meno meno.

Veniamo allora al cinema impegnato. Qui ci sono indubbiamente delle opere notevoli, solo che uno non può andare a vedere sempre e solo film di questo genere. La nostra vita è già un notevole impegno, i problemi sono tanti e così i pensieri. Ritrovarseli sul grande schermo a volte non è piacevole. Per andare a vedere questi film bisogna mettersi in un certo stato d’animo, esattamente come si fa quando si affrontano letture impegnate, di spessore. A questo bisogna aggiungere l’eventuale connotazione sociale o politica della pellicola, che spesso, purtroppo, ha un peso non indifferente nella decisione se debba essere finanziato o meno da parte dello Stato, e che comunque influenza anche l’accettazione della pellicola da parte del grande pubblico, diventa cioè comunque un fattore limitante.

Naturalmente è giusto che questi film ci siano e vengano sostenuti e promossi, se meritevoli, ma tra le pellicole impegnate e quelle demenziali c’è una vera e propria voragine, ed è proprio qui che si incunea buona parte della produzione americana, trascinando poi per inerzia anche tutto il resto. In Italia i registi cosiddetti seri mai si abbasserebbero a fare film di puro intrattenimento, senza messaggi sociali, politici o di altro genere. Commedie leggere, fantascienza, avventura, sono quasi eresie per i nostri veri o sedicenti artisti. In America non c’è questa mentalità da intelletualoide con la puzza sotto il naso: i grandi registi sanno affrontare tanto il film impegnato che quello di puro intrattenimento e così fanno anche i grandi attori. Anzi, spesso attori quotati e conosciuti per la loro capacità di recitazione e la loro serietà professionale, si prestano volentieri a pellicole divertenti e leggere, purché di qualità. Già, perché questa è il secondo fattore chiave, ovvero la qualità. Fare intrattenimento puro non vuol dire fare necessariamente del cinema di bassa qualità, anzi, saper divertire è un’arte che si presta altrettanto bene della sceneggiatura impegnata a essere incorniciata da una buona fotografia, una colonna sonora di tutto rispetto, dialoghi e riprese di valore artistico.

Pensiamo ai film di Lucas o di Spielberg, alla saga di Star Wars o a quella di Indiana Jones. Forse che Spielberg va considerato un regista di scarso valore, incapace di portare in modo efficace un messaggio di spessore sul grande schermo? E «The Color Purple», allora? E «Band of Brothers», dove li mettiamo? Pensiamo alle tante comediole leggere americane, pensiamo a un Jack Nicholson capace di dare il meglio di sé tanto in un film come «One Flew Over the Cuckoo’s Nest» quanto in uno come «The Witches of Eastwick». Pensiamo a film come «Matrix» o «The Lord of the Ring», pensiamo all’immensa produzione di lungometraggi animati come quelli della Pixar. Chi non si divertito con le avventure del piccolo Scrat ala caccia della sua ghianda in «Ice Age»? Chi non ha sentito un groppo al cuore nella scena in cui il piccolo Simba perde il padre travolto dagli gnu per salvarlo in «The Lion King»? Senza contare l’immensa produzione per i ragazzi, spesso apprezzata molto anche dagli adulti, come la saga di «Harry Potter» o il recente «Narnia». E non stiamo parlando solo di americani: basti pensare alle opere di Hayao Miyazaki come «Il Castello Errante di Howl» e «La Città Incantata».

Divertirsi è una cosa seria, e solo chi è veramente bravo sa divertire con stile e originalità. Dov’è il cinema italiano in questo che è forse il mercato più grande e ricco della cinematografia mondiale? A parte alcune opere di indubbio valore come «La Vita è Bella» o «Johnny Stecchino» di Benigni, a parte alcuni cartoni animati come «La Gabbianella e il Gatto» o «Johan Padan a la descoverta de le Americhe», la produzione italiana di un certo livello si tiene bene alla larga da questi generi, considerati da molti registi di rispetto certo "non alla loro altezza". Non parliamo poi della fantascienza o della fantasy, la prima affrontata una sola volta da un regista di fama come Salvatores in «Nirvana», la seconda del tutto ignorata dal nostro cinema. E questo nonostante molti costumisti, compositori, esperti di effetti speciali e altri specialisti italiani siano proprio fra i più apprezzati dal cinema internazionale, chiamati spesso a dare il loro contributo alla produzione d’oltreoceano.

È evidente allora come il problema non siano gli attori, i compositori, i costumisti e i tanti lavoratori del grande schermo che sanno farsi apprezzare in tutto il mondo, ma proprio loro: i registi e i produttori, incapaci i primi di dare alla gente un prodotto di qualità che li sappia far sognare, divertire, dimenticare per un paio d’ore la vita di tutti i giorni; incapaci i secondi di "rischiare" in produzioni che non abbiano appoggi politici ma si basino solo sul puro e semplice intrattenimento. Questo è, a mio avviso, il vero problema del cinema italiano: non sa divertire, non sa intrattenere il pubblico, e quando lo fa, non lo sa fare con qualità e stile. C’è allora da stupirsi se certe pellicole Made in USA facciano il pienone mentre i nostri capolavori, ampiamente sovvenzionati dal governo di turno, non riescono neppure ad andare in pari? A mio avviso no, anzi, mi aspetto in futuro un’invasione di pellicole non doppiate che sapranno comunque richiamare più pubblico di quelle nostrane, così come già avviene in molte nazioni del nord d’Europa.

Finché i nostri registi non avranno compreso questa lezione, a mio avviso, il cinema italiano continuerà a perdere colpi indipendentemente da quanti soldi si investiranno, o forse sarebbe più corretto dire, a questo punto, si sprecheranno per sovvenzionare le produzioni nostrane.

Commenti (11) a «Troppo «seri» questi registi»

  1. mc2033 ha detto:

    Er… mi pare che LOTR sia una produzione neozelandese, NON americana. E se non sbaglio Harry Potter è inglese… Comunque in generale la penso come te, l’unico che ha un po’ il coraggio di sperimentare è Salvatores, gli altri puntano tutti sul “già visto”…

  2. Dario de Judicibus ha detto:

    LOTR è stato prodotto dalla «New Line Cinema», una casa cinematografica indipendente americana di proprietà della Time Warner. Per ragioni di costi il film è stato girato interamente in Nuova Zelanda, così come neozelandese è il regista. Harry Potter è prodotto dalla Warner Bros Pictures, la stessa di molti cartoni animati, e quindi è anch’esso una produzione americana. Ad essere inglese è l’autrice del libro, JK Rowling.

  3. enzzz ha detto:

    Vorrei far notare che “Totò che visse due volte” ha avuto vita travagliata causa censura, per cui è un esempio leggermente fuori luogo.

  4. enzzz ha detto:

    … ed ora, avendo letto il resto del post, direi anche che la distinzione tra film impegnati e demenziali non caratterizza certo il nostro cinema. Piuttosto abbiamo una tradizione intimistica, ombelicale, che poco si adatta ai grandi numeri.

    E’ vero invece che manca la fantasy, ma è questione culturale: manca anche dalla nostra letteratura, ed una ragione ci sarà. Poi sì, si può immaginare che per vendere di più si debba andare in quella direzione, ma dovrebbero essere i produttori a pensarci, non lo Stato.

    Infine, il solito confronto USA-Italia non ha senso da punto di vista numerico; semmai bisognerebbe fare il confronto con l’Europa (anche se immagino che alla fine l’esito sia simile). Non solo, riguardo gli Stati Uniti, bisognerebbe anche tenere in considerazione il fatto che tradizionalmente non si doppia, per cui un film in lingua non inglese ha poche probabilità di essere guardato. Chissà mai che Boldi e De Sica non venderebbero anche di là…

  5. Dario de Judicibus ha detto:

    Non so cosa tu intenda per tradizione intimistica, ombelicale, ma sinceramente molti film italiani sono pesanti, troppo carichi di problemi, di problematiche psicologiche, di caratterizzazioni e di analisi sociali. Non dico che non siano pellicole valide, ma io voglio anche e SOPRATTUTTO divertirmi quando vado al cinema, e questo la produzione americana spesso me lo da. Non sto parlando solo di fantasy o fantascienza, ma di avventura, spionaggio, commedie, comicità, insomma, i film americani sono meglio costruiti. Era così anche con i cartoni animati, poi qualcuno in Italia ha iniziato a farli e ha dimostrato di saperli fare bene. Adesso, timidamente, si continua, ma la produzione italiana di cartoni NON è comunque esplosa. Non stiamo sfruttando questa possibilità come potremmo.

    Il vero problema è che la cinematografia italiana ha lo stesso difetto della maggior parte dell’industria italiana: non ha una vision, non è innovativa, pronta a rischiare su un sogno o su un’idea.

    Tu dici che i nostri film non hanno mercato in USA perché lì non si doppia. D’accordo, ma allora perché non provare a fare un film in inglese? Con attori di tutto il mondo? Ci sono molti attori italiani che sanno recitare in inglese. E perché i nostri cartoni animati non riescono a vendere in USA? Quelli sarebbero comunque doppiati. E allora? Manca capacità imprenditoriale, manca competitività. Non è solo nel cinema, ma anche nella letteratura. Ormai i francesi ci hanno sorpassato da un pezzo. Noi, sul mercato internazionale, NON esistiamo. D’altra parte i nostri editori non investono spesso neanche sugli italiani, a meno che non abbiano la giusta spinta, in genere politica.

  6. pluto ha detto:

    Ho letto il tuo post su soluzioni. Prova commento.

  7. Dario de Judicibus ha detto:

    Grazie, pluto, ma il problema non è il mio blog. Sono io che non riesco a commentare… 🙁 Ovviamente, se vedi questo commento, il problema è risolto.

  8. Ggioia ha detto:

    grazie mille per i commenti sul mio blog. Sinceramente non vivo in una casa fronte lago … ma da qui mi bastano pochi minuti di strada per riuscire a vederlo…

    Chissà … magari un giorno sarai tu a vivere fronte lago…

  9. enzzz ha detto:

    intimistico = (più o meno) “problemi, di problematiche psicologiche, caratterizzazioni” . Per impegnato normalmente si intende politico (ma c’è anche Michale Moore che li fa).

    Posso essere abbastanza d’accordo sull’analisi, ma mi sembra troppo semplice sperare che sia il regista a non voler fare un film che vende un sacco. Piuttosto, mi piacerebbe un confronto tra i costi delle produzioni…

  10. Dario de Judicibus ha detto:

    Per impegnato normalmente si intende politico (ma c’è anche Michale Moore che li fa).

    Ecco! Questo è un altro aspetto del cinema italiano che non mi piace: associare il concetto di impegnato solo ed esclusivamente alla politica.

    Un film è «impegnato» quando affronta un problema e lo analizza, oppure gli dà visibilità. Può essere un problema sociale, ambientale, relativo alla scienza o alla tecnologia, etico o religioso. Non è affatto detto che nell’affrontare questo genere di problemi si debba per forza inquadrarli in un ambito politico. Anzi, è proprio politicizzando un problema che non lo si risolve.

    Il fatto che la politica strumentalizzi i problemi per farne crociate contro l’avversario del momento, non vuol dire che tutti i problemi siano politici, anzi. Purtroppo il cinema è spesso al soldo della politica, e quindi molto cinema cosiddetto impegnato si presta spesso a un utilizzo strumentale delle problematiche sociali o di altro genere. Anche per questo il nostro cinema non è competitivo: è spesso uno strumento ad uso e consumo di gruppi di potere, come giornali e televisione, e quindi non centrato sullo spettatore e sulle sue necessità.

  11. mc2033 ha detto:

    “Perché non provare a fare un film in inglese? Con attori di tutto il mondo?”

    Uno l’abbiamo fatto: Il Giorno Prima. E a me era piaciuto parecchio. Poi, quindici anni dopo, i tedeschi hanno prodotto Das Experiment (tema analogo, svolgimento pressoché identico), maggiore successo pubblico (guardate i voti). La critica non è stata troppo buona con nessuno dei due (Il Giorno Prima a confronto con Das Experiment).

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