Elogio del fallimento



Emancipazione e pari opportunità.

Cosa vi fanno venire in mente queste parole? Probabilmente la classica donna in carriera, capace di competere alla pari con i suoi colleghi maschi e magari anche superarli sul lavoro. Oppure una donna libera, non legata a un compagno o a una famiglia, che vive la sua sessualità senza inibizioni o vincoli di alcun genere.

E se invece di questi stereotipi volessimo proporne un altro? Magari un papà che non lavora, che si occupa della casa, pulisce, lava i piatti, cambia il bebè in attesa che torni a casa la moglie dall’ufficio? Un uomo che fa la spesa e si occupa delle tante incombenze domestiche, che porta i figli a scuola e va a prenderli in palestra, che va a parlare con gli insegnanti e porta la più piccina dal dentista perché si deve mettere l’apparecchio?

Un uomo del genere, nella nostra società, non è simbolo di emancipazione, di pari opportunità e pari dignità con l’altro sesso: è semplicemente un disoccupato, anzi, un fallito. In una causa di separazione verrebbe guardato con disprezzo per non essere stato capace di occuparsi della sua famiglia — leggi, mantenerla economicamente, unica attività che questa società sessista riconosce al genitore di sesso maschile. In un qualsiasi contesto sociale verrebbe considerato un mantenuto, un parassita, dato che non è lui a portare a casa lo stipendio.

Torniamo alla nostra donna in carriera. Per anni molte femministe hanno esaltato il ruolo della donna arrivando addirittura ad affermare che se le donne fossero al potere non ci sarebbero più state guerre mentre corruzione e disonestà sarebbero scomparse da enti pubblici e imprese private. Eppure se guardiamo le donne in politica, le imprenditrici, le donne in carriera, ritroviamo in loro tutti i difetti e tutti gli scempi che caratterizzano le loro controparti maschili.

C’è l’assessore che prende mazzette, l’imprenditrice che evade il fisco, l’industriale che per far tornare i conti fa scaricare rifiuti tossici nelle discariche, la soldatessa che tortura i prigionieri, e chi più ne ha più ne metta. Senza arrivare a questi estremi basta guardarsi intorno in un ufficio per vedere come le donne in carriera si comportino esattamente come i loro colleghi maschi: a casa i figli non le vedono più neanche durante i fine settimana, sono stressate, troppo impegnate per dedicarsi a un passatempo e se hanno del tempo libero lo passano in palestra ma solo perché avere un buon fisico spesso fa bene agli affari e alla carriera. Oggi tutto è immagine: essere bella, elegante, sempre alla moda, far parte dei circoli che contano, è l’unico modo per fare affari. Bravura e capacità servono, certo, ma non da sole. Il look non sarà tutto, ma apre molte porte.

Le single, poi, sono così impegnate che oramai non si possono più permettere neanche un compagno fisso, anzi, averlo può rappresentare spesso e volentieri un ostacolo. Meglio rapporti estemporanei, magari anche a pagamento, tanto ci sono agenzie che ti offrono un servizio completo, chiavi in mano. E così anche in questo settore, un tempo terreno esclusivo dei maschietti, le nostre donne in carriera dimostrano fino a quali limiti può portare l’emancipazione.

Intanto il nostro papà sta mettendo a letto la sua bambina, dopo averle raccontato la favola della buonanotte. Ma in fondo che può capirne lui di emancipazione, lui che è solo un fallito, uno che nella vita non ha combinato nulla?

Buonanotte e sogni d’oro.


Commenti (2) a «Elogio del fallimento»

  1. melozza ha detto:

    caro Dario, so che da donna ti sembrerò di parte, ma non sono affatto d’accordo su alcuni punti del tuo scritto. Fermo restando che colgo tanta rabbia tra le righe, e che il ruolo del padre fallito perchè non porta a casa lo stipendio, oggi, grazie proprio alle pari opportunità, lo viviamo anche noi donne. Anche da noi ci si aspetta che portiamo a casa lo stipendio, ma che al contempo siamo anche buone madri e buone mogli. Non mancano mai i paragoni con le altre donne, guarda caso sempre più curate di noi, più affettuose e più capaci in tutto. Guardala anche dall’altra parte: un uomo in carriera che guadagna un buon stipendio, ha già assolto al suo compito, e da lui, pretendere anche una mano con casa e bimbi, è quasi sacrilegio. Il massimo che possono fare è pagare per qualche ora la colf. Tutto quanto ne verrà in più, sarà oro che cola, che li immolerà sull’altare della quasi santità.

    Da una donna invece, si pretende quasi sempre che per amore della famiglia, lavori quanto basta, perchè la carriera è superflua, e guai a non essere in grado, oltre che di portare a casa lo stipendio, di badare ai propri figli, al marito e alla casa. Sarebbe sì un fallimento! Molte, se potessero, si godrebbero solo le ultime tre cose, non sbatterebbero come trottole impazzite in preda ai continui sensi di colpa. Ma lavorare è davvero una necessità oggi, che non puoi purtroppo negare, perchè non tutti gli uomini guadagnano da dirigenti, e rimboccarsi le maniche diventa un esigenza per tutti. Perdona ancora la lunghezza del mio commento.

    Ti abbraccio,

    Terry

  2. Dario de Judicibus ha detto:

    Terry,

    credo che tu abbia equivocato. Il mio elogio al fallimento intende condannare proprio l’ipocrisia di una cultura che parla tanto di emancipazione ma poi la riconduce al semplice riproporre la donna in ruoli che per secoli sono stati maschili. In realtà una vera cultura nella quale esiste realmente parità fra sessi non si dovrebbe porre il problema di esaltare, tra l’altro in modo così asimmetrico, la conquista da parte della donna di uno spazio nel mondo del lavoro.

    Ti faccio un esempio concreto. Pensa ai servizi giornalistici che spesso si vedono in televisione. Hai notato che quando si fa vedere l’ufficio di un procuratore, da un po’ di tempo a questa parte, fra i poliziotti in secondo piano c’è sempre una donna? L’intento di essere politically correct è evidente a chi sa osservare. Se un nostro soldato è ferito in una delle tante missioni di pace, se ne parla per qualche secondo in televisione, se ad essere ferita è una donna, se ne parla per giorni. Facciamo a capirci: non è una prerogativa solo nostra. Negli USA, dove all’emancipazione femminile bisogna aggiungere quella degli afro-americani, come si fanno chiamare adesso, in quasi tutti i film degli ultimi anni, guarda caso, si vede spesso il trittico uomo bianco-donna-afroamericano.

    È evidente come tutto ciò serva a nascondere solo il fatto che in realtà di discriminazioni nella nostra società ce ne sono ancora tante, basate sul sesso, sul colore della pelle, sull’etnia, sulla religione. L’importante è che non appaia. E allora si parla di quote rosa, negazione del principio che va premiato chi vale indipendentemente dal sesso, e le eroine dei serial televisivi picchiano come dannate e fanno le dure, con buona pace di quelle femministe che dicono che le donne non sono violente. Quante contraddizioni, vero?

    Tu dici: …colgo tanta rabbia tra le righe, e che il ruolo del padre fallito perchè non porta a casa lo stipendio…. Beh, in questa frase ci sono due errori: il primo è che io non considero fallito il padre che non porta a casa lo stipendio. È questa società che lo fa. Il mio articolo voleva essere ironico ed elogiare questo fallimento perché io considero l’uomo che si occupa della propria famiglia a casa esattamente come la donna che si occupa della famiglia a casa: un bravissimo genitore e un buon compagno. Ma questo femminismo alla rovescia fa della casalinga una frustrata, tanto che la donna che sceglie — nota che ho detto sceglie — di fare la casalinga è anch’essa considerata una fallita e non un individuo che ha una sua scala di valori e ad essa si mantiene coerente. E così le opportunità smettono di essere tali e diventano un obbligo: una donna che non lavora, che non fa carriera, che non dimostra di essere più brava dei maschi è una perdente. Nessuno a cui venga in mente che tutta questa gara di bullismo è semplicemente ridicola e che ognuno dovrebbe fare le proprie scelte in base alle proprie convinzioni e desideri e non per dimostrare qualcosa a qualcuno. Ma siamo seri: se potessimo nessuno di noi lavorerebbe. Non sto dicendo che non faremmo nulla, solo che non lo faremmo per campare ma per il nostro piacere personale, per solidarietà verso gli altri, per amore. Disegneremmo, scriveremmo, faremmo volontariato, insomma, in una parola vivremmo.

    Pensare che l’unica cosa che il femminismo ha portato sia fare delle donne degli individui altrettanto frustrati, stressati, egoisti, capaci di accoltellare il collega alle spalle per far carriera, mi sembra ben triste. La parità fra sessi dovrebbe farci crescere, diventare più maturi, non farci affondare in questa gara a chi è più… beh, hai capito il concetto.

    Secondo errore: tu parli di rabbia per il ruolo del padre fallito che non porta a casa lo stipendio. Perché? Quello che mi fa arrabbiare in genere sono la stupidità, l’ipocrisia, la demagogia; non il presunto fallimento. Magari ci fossero più padri falliti, e magari anche madri, perché ci sarebbero più figli che potrebbero passare un po’ più di tempo con i loro genitori. Dici che un uomo in carriera che guadagna un buon stipendio, ha già assolto al suo compito. Quale compito? Chi glielo ha dato? Ma veramente pensi che il compito di un genitore si possa esaurire nel mantenimento economico. E magari poi, quandi i figli che desideravano quell’amore che non gli ha saputo dare si comportano in modo non consono, è capace anche di rinfacciarglielo, quel mantenimento. Lasciamo stare. Genitori così sarebbe meglio non li avessero fatti, i figli.

    No, non c’è rabbia nelle mie parola, ma condanna: condanna per questa società ipocrita dove una giusta rivendicazione si è trasformata in una schiavitù, il desiderio di libertà e di indipendenza in una nuova catena. Gli uomini e le donne in carriera sono solo gli schiavi del Terzo Millennio, persone — guarda caso in greco persona significa maschera — che hanno venduto la loro anima al demone del potere e del successo, sacrificando così il vero amore e gli affetti familiari. Non c’è gloria in tutto ciò. Quella che avrebbe dovuto essere una scelta, un’opportunità, è diventata un’imnposizione quando non è una necessità. E in effetti tu dici che non tutti gli uomini guadagnano da dirigenti, e rimboccarsi le maniche diventa un esigenza per tutti. Vero, ma come vedi ci sei cascata anche tu. Non hai detto non tutti guadagnano ma non tutti gli uomini guadagnano, assumendo implicitamente che molte donne lavorano perche l’uomo non guadagna da dirigente. Ma perché allora non viceversa? Perché non potrebbero essere gli uomini a trovarsi costretti a lavorare perché le loro donne non guadagnano da dirigente? Suona strano, vero? Perché vedi, se un uomo non lavorasse e la moglie fosse veramente una ricca dirigente, tutti direbbero che non ha assolto al suo compito — suona molto biblica la cosa — ovvero che è solo un mantenuto. Potrebbe essere il miglior casalingo del mondo, un provetto cuoco, un genitore amorevole: nulla gli eviterebbe di essere marchiato a fuoco e le prime a farlo sarebbero proprio quelle vetero-femministe che tanto parlano di parità ma poi — sentito con le mie orecchie in una seduta del Parlamento da parte di una deputata di Rifondazione Comunista — quei papà che vogliono occuparsi dei figli sono solo dei patetici mammi che non hanno capito qual’è il loro ruolo nella società. Prosit!

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