Ho fatto un sogno…



Ieri ho ascoltato su SKY TG24 un’intervista al regista polacco Krzysztof Zanussi. Alla domanda sul perché il cinema italiano stia vivendo una crisi profonda, Zanussi ha risposto che il problema nasce dall’aver perso la capacità di sognare, non solo nel cinema, ma nella società italiana in generale.

Condivido in pieno quest’analisi che trovo molto sottile e profonda. Nella nostra società il sognatore è una persona da emarginare, da guardare con commiserazione se non addirittura con disprezzo. Pensate ad esempio al termine visionario. Da noi indica qualcuno che ha la testa fra le nuvole, sostanzialmente un pazzo, seppure più o meno innocuo. In altre società, soprattutto in quella statunitense, ha un’accezione assolutamente positiva: un visionario è un innovatore, un pioniere, uno che sa vedere più in là degli altri, un individuo da portare ad esempio, da seguire.

Torniamo per un momento al cinema. Il nostro cinema è sostanzialmente schizofrenico. Da una parte abbiamo le varie commediole stile «Vacanze di Natale», pellicole senza capo né coda, sostanzialmente idiote e di scarsa qualità basate prevalentemente su un mix di battute più o meno volgari ed erotismo campagnolo; dall’altra abbiamo le pellicole impegnate che ci ripropongono sempre gli stessi tormenti, gli stessi problemi, cariche di significati, spesso reconditi, più spesso legati a questo o quel pensiero politico. In mezzo, il nulla.

La pura e semplice pellicola da intrattenimento da noi non esiste. Sia mai che un regista serio proponga una serie come quelle di «Indiana Johns» o di «Harry Potter», una trilogia come quella del «Signore degli Anelli» o di «Matrix». E non è una questione di budget o di capacità e risorse, tanto più che nel campo degli effetti speciali i nostri tecnici sono rinomati in tutto il mondo. Un film come «Alien», ad esempio, è costato 11 milioni di dollari, ma ne ha guadanati oltre 60 solo nelle sale cinematografiche di Stati Uniti e Canada nei primi mesi di proiezione. Da noi, fino a oggi, lo Stato ha supportato il cinema italiano attraverso un meccanismo di finanziamento con cui era possibile coprire fino al 90% delle spese di produzione di un film. Solo nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha investito 108,4 milioni di euro per 57 produzioni italiane, mentre altri 193,3 milioni sono stati investiti dall’imprenditoria privata per 41 film nazionali.

Insomma, i soldi ci sono. Quelle che mancano sono le idee, ma soprattutto il problema è appunto la presunzione di considerare qualsiasi forma di intrattenimento, di puro divertimento, indegna dell’attenzione dei grandi registi. L’unico che ci ha provato è stato Salvatores con il suo «Nirvana», una pellicola stile cyberpunk di buona qualità, ma che avuto scarsa attenzione da parte della distribuzione. Quanto meno un lodevole tentativo. Da noi uno Spielberg o un Lucas non sarebbero riusciti a girare neanche uno dei film che li hanno resi famosi e se anche ci fossero riusciti, non avrebbero avuto alcun sostegno da parte della distribuzione: sarebbero al meglio finiti in qualche sala parrocchiale.

Un discorso analogo, seppure differente, riguarda il cinema d’animazione. Anche in questo caso si è registrato in Italia un pesante ritardo, seppure ci siano stati tentativi pionieristici come quelli di Bozzetto. Ci sono voluti anni per arrivare a pellicole come «La Gabbianella e il Gatto» o «Johan Padan alla Scoperta dell’America», splendide pellicole disegnate stupendamente e con originalità grafica.

E la produzione televisiva non si discosta da questo triste scenario. Ai vari Star Trek, Buffy, Dark Angel, Willy & Grace, Stargate SG-1, Alias, Lost e compagnia bella, la nostra produzione televisiva si rifugia in commediole come Un Medico in famiglia e serie infinite come quelle della Piovra. Le prime almeno sono divertenti — penso anche a Don Matteo — ma dopo un po’ si dimostrano piuttosto ripetitive e comunque alquanto artigianali, non certo comparabili alle serie della Fox, ad esempio. Le seconde riprendono il filone delle pellicole impegnate che tanto piacciono a una certa intellighentia responsabile anche di monopolizzare il mercato del libro.

Già, perché anche nel mondo dell’editoria si vive questa assoluta schizofrenia. Quei pochi libri pubblicati dalle case editrici che non sono traduzioni di più o meno presunti bestseller stranieri, ricadono o nel genere comico demenziale, oppure nascono da quel circolo chiuso di autori dalle spalle ben coperte, spesso da politici o altri autori di successo, che passano il loro tempo a impalmarsi a vicenda nei vari premi letterari. Naturalmente si tratta sempre di scritti seri, impegnati. Sia mai che un grande scrittore si abbassi a scrivere narrativa fantastica o romanzi con il solo e semplice obiettivo di divertire e incuriosire il lettore!

Ma come ho già detto questo modo di pensare non è limitato al mondo del cinema, dello spettacolo e letterario. La stessa idiosincrasia per i sogni ce l’hanno anche gli imprenditori. Nelle aziende italiane l’avere una visione, prima ancora che una strategia, è considerato quasi un reato. Vieni subito emarginato, o quanto meno marcato come scienziato, visionario, sogantore appunto. Tutti termine che altrove farebbero il succeso di un lavoratore e che da noi rappresentano uno stop sicuro alla carriera. La cosiddetta fantasia italiaca alla fine non è altro che «arte di arrangiarsi». Ma la Fantasia, la vera fantasia, quella con la effe maiuscola, non può esistere se non esiste il Sogno.

Sognare non vuol dire solo vedere oltre, ma anche avere un orientamento positivo nei confronti del futuro, saper mescolare insieme speranza e realismo, inventiva e concretezza, innovazione e competenza. Il visionario, il vero visionario, non è un pazzo, ma uno che ha avuto la forza e la determinazione di scalare la collina più alta per vedere cosa c’è dall’altra parte e che poi ha avuto il coraggio di tornare indietro per dirlo agli altri, per cercare di portarli con sé verso un mondo migliore, più sano, più bello, anche e semplicemente più divertente. Perché chi sogna sa anche giocare, e chi gioca sa anche amare, e l’amore, la solidarietà, sono il tessuto connettivo di una società sana, dove non si ha paura di essere allo stesso tempo adulti e bambini, dove si può unire l’attenzione al profitto con la capacità di divertire, l’attenzione all’ambiente con la sostenibilità economica, la solidarietà con la meritocrazia.

Ma forse questo è solo un sogno… il mio.

When the dream dies, what of the dreamer?
When the dreamer dies, what of the dream?
A. B. Chandler

Commenti (9) a «Ho fatto un sogno…»

  1. utente anonimo ha detto:

    Concordo con la sua opinione riguardo un’Italia che non sogna. Il discorso è complesso da affrontare, perché, come giustamente rileva, la società italiana è vecchia “dentro”. Mantenere qualcosa di infantile all’interno di se stessi è un ausilio contro la noia, un antidoto contro la vecchiaia cerebrale. L’Italia sta tentando di prendersi troppo sul serio, con dei miti del passato chiusi e retrogradi. Sento ancora gente che parla degli antichi romani, del’eredità storica, del fatto che gli italiani sanno arrangiarsi… Troppo spesso il tutto viene accompagnato al “noi”. Appunto, noi chi? Non è che viviamo di luce riflessa, di un benessere drogato, dopo una gestione politica ottima per le emergenze, ma pessima per un progetto riguardante il futuro? Ha ragione anche quando dice che il visionario in Italia è un pazzo. L’accezione che ne viene data nella penisola in cui risiediamo è sempre negativa. E chi lo è viene messo ai margini (ne so qualcosa a livello personale). Quel che mi fa paura è che la società italiana è ferma ai privilegi, al posto sicuro e la vita apparentmente facile. La proposta manca sia dal punto di vista dell’arte, che della vita economica, si punta sul sicura e quindi non ci si mette in gioco, in maniera ironica. Il cinema, ma anche la musica, l’industria, la scuola e la ricerca ne risentono. Rammento che nei primi anni sessanta c’era tanto entusiasmo, iniziativa, voglia di superare gli ostacoli con creatività. Oggi, invece, si vive di passato. Non sono convinto che per l’Italia si tratti di esalare il suo ultimo respiro, ma questa voglia di fare la sento tra gli extracomunitari che ci affollano. Molti di loro, nonostante l’impreparazione a livello linguistico, riescono a comunicarmi molto più entusiasmo e futuro. E la cosa mi preoccupa.

  2. Dario de Judicibus ha detto:

    Concordo. E aggiungo che una delle caratteristiche che sempre più ci manca è l’attitudine al rischio, senza la quale qualunque sogno resta solo tale.

  3. utente anonimo ha detto:

    Il cancro degli italiani è la loro “furbizia”.

    Finché penseremo di essere più furbi degli altri e di poter “fregare” il prossimo allora non avremo innovazione.

    La furbizia, che magari in un primo momento sembra avvantaggiarci, in realtà alla lunga (ma non tanto) ci rovinerà.

    Chi non paga le tasse è quasi considerato un mito da seguire piuttosto che un delinquente da perseguire.

    Chi evita una trafila burocratica perché ha “conoscenze” in un ufficio è considerato fortunato o bravo!

    Chi passa un esame perché ha copiato è considerato un mito da seguire!

    Chi trasgredisce la legge perché in quel momento non c’è nessuno che controlla è considerato in gamba!

    Troppo spesso chi scavalca gli altri ignorando semplici e fondamentali concetti come “rispetto” e “onestà” sembra essere favorito dalla società.

    A quanti di voi è capitato di “sentirsi” stupidi SOLO per essere stati onesti e aver rispettato le leggi e le regole?

    A me capita spesso; ma non smetterò (spero) di essere onesto solo perché tanti altri non lo sono.

    L’arte di arrangiarsi potrebbe essere una risorsa se solo la usassimo per il bene comune e non, FURBESCAMENTE, per tornaconto personale.

    Non voglio fare il menagramo, credetemi, ma se non iniziamo a pubblicizzare l’onestà, la correttezza (incredibile, ma necessario) e il sogno di una società migliore non usciremo dal tunnel in cui sembra ci troviamo.

    Magari dovremmo cominciare a capire che “fregare” lo Stato (o la società) significa fregare noi stessi e i nostri cari. Forse questo può essere un punto di partenza…

    Zingaro

  4. Dario de Judicibus ha detto:

    La cosiddetta furbizia italiana ha, a mio avviso, due cause, una antica e una moderna.

    Quella antica nasce dal fatto che per secoli l’Italia è stata sotto il dominio di governi stranieri. Si è così venuto a creare un divario fra Governo e Popolo. La gente non sentiva proprio lo Stato, lo vedeva come qualcosa di estraneo, di straniero appunto, e quindi ha sempre considerato l’arrangiarsi e il fregare il governo un punto d’onore piuttosto che un crimine. Basti pensare alla storia del brigantaggio in Italia che spesso si è fuso in modo difficile da discernere con una sorta di partigianeria ante litteram.

    La seconda causa nasce dal sistema Italia che per molti anni, e tuttora in parte, purtroppo, è stato caratterizzato da molta corruzione, da una Pubblica Amministrazione inefficiente, da uno Stato assente. Questo sta cambiando, per fortuna: di corruzione ce n’è meno che in passato; la P.A. funziona molto meglio che dieci anni fa, è più efficiente e allo sportello si trovano spesso impiegati che cercano davvero di aiutarti; lo Stato è molto più presente che in passato, soprattutto a fronte di eventi drammatici. C’è ancora molto da fare ma sarebbe ingiusto dire che non è cambiato nulla.

    Il passato è passato e il presente è migliore: ergo, esistono tutte le condizioni per cambiare, per abbandonare il mito del furbo e costruire quello dell’onesto, del buon cittadino.

    Come? Primo, cercando di essere sempre onesti, senza arrivare all’ingenuità, ma senza neanche fare qualcosa di sbagliato. Entro certi limiti arrangiarsi non è un reato, ma dobbiamo sempre chiederci se lo stiamo facendo a scapito di qualcun altro e, nel caso, fare marcia indietro.

    Secondo, segnalando senza paura chi sbaglia, chi non si comporta bene, chi continua a fare il furbo. Non si cada nell’errore di ritenere l’omertà una virtù. È solo ipocrisia, vigliaccheria. Non c’è onore nel coprire un reato.

  5. utente anonimo ha detto:

    Secondo me, oltre a segnalare i reati, bisognerebbe anche segnalare, esaltare e magari premiare l’onestà.

    Faccio un esempio banale: se la polizia stradale mi ferma e trova tutto in regola potrei ricevere un piccolo “sconto” sul pagamento del bollo dell’auto: un modesto premio alla mia correttezza (che avrebbe un grande significato sul piano morale).

    Altro esempio: per avere uno sconto sull’ICI posso richiedere un controllo dei 10 anni passati e, se ho sempre pagato tutto, all’undicesimo anno potrei godere di uno sconto…

    Secondo me tanti piccoli evasori sarebbero invogliati a rientrare nella legalità.

    Io resto convinto che l’incentivo economico alla legalità dia più frutti di una repressione con multe e sanzioni varie.

    In questo modo l’onesto sarà più incoraggiato a continuare e avrà, magari, degli “ammiratori”.

    Zingaro

  6. utente anonimo ha detto:

    Interessante idea… In effetti già c’è, se non sbaglio: a me hanno accreditato a luglio ben 2 punti sulla patente per non aver avuto nessun incidente.

  7. Dario de Judicibus ha detto:

    P.S. Il commento #6 è mio.

  8. utente anonimo ha detto:

    L’accredito dei punti in patente è stato automatico e per TUTTI quelli (anch’io fra loro) che non hanno fatto infrazioni (non incidenti) negli ultimi 2 anni.

    Zingaro

  9. Dario de Judicibus ha detto:

    Comunque condivido: un meccanismo analogo sarebbe utile anche in altre situazioni, come in quella fiscale.

Nessuna retrotraccia o avviso a «Ho fatto un sogno…»

Si prega di usare Facebook solo per commenti brevi.
Per commenti più lunghi è preferibile utilizzare l'area di testo in fondo alla pagina.

Commenti Facebook

Lascia una risposta





Nel rispetto delle apposite norme di legge si dichiara che questo sito non ha alcun scopo di lucro, non ha una periodicità prestabilita e non viene aggiornato secondo alcuna scadenza prefissata. Pertanto non può essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge italiana n. 62 del 7 marzo 2001. Inoltre questo sito si avvale del diritto di citazione a scopo accademico e di critica previsto dall'Articolo 10 della Convenzione di Berna sul diritto d'autore.