Ipocrisie: la prevenzione



La nostra è una società fondamentalmente ipocrita. Non è un’opinione ma un dato di fatto. Questo è il primo di una serie di articoli che parlano di questa ipocrisia e di quanto sia radicata nella nostra società al punto di non riuscire più spesso neppure a riconoscerla come tale.

Parliamo di prevenzione. Se ne parla molto negli ultimi tempi, anche a causa di una serie di gravi infortuni sul lavoro che hanno funestato il nostro Paese. Se ne parla, e basta. Certo, c’è una nuova legge, "severissima" contro quelle aziende che non adottano tutte le precauzioni possibili per evitare tali infortuni, ma il problema sono davvero le aziende?

Indubbiamente ci sono molte imprese che si guardano bene dall’investire in prevenzione, ma se questo sucede non è solo colpa di alcuni imprenditori "criminali" ma anche e soprattutto di tutti noi. È qui sta l’ipocrisia. Non ci credete? Pensate che stia esagerando o che voglia giustificare questo o quell’imprenditore di cui peraltro non potrebbe importarmi di meno? Non è così. È inutile che ci prendiamo in giro. La colpa è nostra e credo di poterlo dimostrare. Poi si tratterà solo di guardarvi intorno con occhi nuovi e forse concorderete con me.

Prevenzione. Vuol dire mettere in atto una serie di misure per prevenire o quanto meno ridurre le probabilità di danni seri a persone e cose a fronte di incidenti, cataclismi naturali o altri eventi imprevedibili. La prevenzione non riguarda infatti solo gli incidenti sul lavoro, ma anche quelli domestici, quelli stradali e in generale tutti quegli eventi che possono portare al ferimento o alla morte di persone e al danneggiamento di beni, dall’incendio all’alluvione, dal terremoto al fortunale.

Prendiamo gli incidenti stradali. Ancora oggi la maggior parte dei morti e delle invalidità permanenti sono causate non dall’incidente in sé, ma dal non mettere in atto tutta una serie misure di prevenzione conosciute e spesso obbligatorie da parte delle persone coinvolte.

Basta andare in giro per una qualsiasi città italiana per rendersene conto. Una delle mancanze più comuni riguarda le cinture di sicurezza e i seggiolini per bambini. Spesso mi capita di vedere "amorevoli" mamme sul sedile anteriore del passeggero tenere il figlio sulle ginocchia senza alcuna protezione. O anche di vedere i bambini giocare sui sedili di dietro, magari in piedi, senza essere assicurati al seggiolino o quantomeno con la cintura di sicurezza. Una volta ho provato anche a far notare la cosa a una di queste signore. La risposta è stata allucinante: «Sì, lo so, ma se lo lego inizia a lamentarsi e poi non ci vuole stare!».

Mi domando quante di queste persone abbiano mai provato l’effetto di una brusca frenata anche a soli 40 chilometri all’ora — una velocità per molti ritenuta bassa persino in città — su un bambino non assicurato con la cintura. Beh, è semplice: equivale alla caduta dal secondo piano di un palazzo. Avete idea di cosa succede a una testa nel toccare terra da quell’altezza? Ecco: quello è ciò che succederebbe a un bambino non assicurato con una cintura di sicurezza in caso di una brusca frenata o peggio ancora di un urto contro un altro veicolo o un muretto. Ma allora, perché stupirsi se quel genitore che mette in questo modo in pericolo la vita dei suoi figli senza preoccuparsi delle conseguenze, nel momento in cui ha una posizione di responsabilità in un’azienda non si preoccupa di applicare le regole antinfortunistica?

E il bello è che a comportarsi in questo modo sulla strada non sono solo coloro che poi fanno altrettanto nelle aziende, ma anche quelli che si sdegnano e si scandalizzano quando qualcuno muore sul lavoro. Tutti pronti ad accusare le imprese, salvo fare lo stesso a casa propria. E non solo per le cinture, ma per il casco, l’impianto elettrico di casa e tante altre amenità che, se non gestite correttamente, possono mettere continuamente in pericolo noi e gli altri. Perché il punto non è se e quanto sia probabile un certo evento, ma solo quando succederà. Perché prima o poi, succederà.

Ipocrisia? Vediamo di fare un salto indietro di qualche anno. Ve lo ricordate cosa successe quando per la prima volta in Italia si parlò di cinture e casco obbligatori? Dibattiti a non finire. Si arrivò addirittura a dire che «le cinture sono pericolose» e che «il casco non permette la visuale»! Tutti i motivi erano buoni pur di non far passare la legge. E poi tutti a chiedere l’esenzione, a parlare di eccezioni sia per le cinture che per il casco: i tassisti, i poliziotti, le donne in cinta, quelli troppo grassi, quelli troppo magri, le signore con la permenente… Eravamo forse gli ultimi nel mondo occidentale, ma siamo riusciti ancora una volta a renderci ridicoli.

In Italia non esiste una cultura della prevenzione, non esiste nelle nostre case, negli uffici e nelle fabbriche, non esiste nelle foreste o sulle spiaggie, non esiste e basta. Se molte aziende non fanno prevenzione non è solo colpa degli imprenditori, ma di tutti, dai capi di primo livello ai dirigenti, dagli impiegati agli stessi operai. Ho parlato con alcuni operai che non avevano il casco in un cantiere edile. Colpa dell’ingegnere o del costruttore? No, i caschi erano proprio lì, pronti all’uso, così come le corde di sicurezza e i guanti. Perché allora non li mettevano? Perché erano "scomodi", impedivano i movimenti, rallentavano il lavoro. «Ma è la vostra vita in gioco!», ho replicato. La risposta? «Sono vent’anni che faccio questo lavoro e non mi è mai successo nulla.». Con certe persone sembra quasi che mettere il casco sia una dimostrazione di incompetenza. I veterani non mettono il casco, loro no… Ma forse se uno ha la testa così dura, magari non si fa davvero nulla se gli cade un mattone sulla capoccia.

Non c’è da stupirsi se nelle piccole imprese a carattere familiare, quelle — tanto per intenderci — dove il padrone lavora fianco a fianco con i suoi operai, a lasciarci la pelle sono tanto l’uno quanto gli altri. Lì non c’è l’imprenditore "cattivo" che obbliga i suoi operai a non usare certe misure di sicurezza. Ci sono solo persone ignoranti che non si rendono conto di quanto sia facile perdere la vita se non si prendono certe precauzioni. E infatti la perdono: padrone ed operai, per buona pace di tutti. Eterna.

Per assurdo una vera cultura della prevenzioni da noi esiste solo in quegli ambiti sportivi ed amatoriali dove chi conosce veramente la propria disciplina sa anche cosa si può fare e consa non si deve fare: subacquei, scalatori, paracadutisti. Non è un caso se chi rischia la vita ogni giorno in discipline estreme corre spesso meno rischi di chi lavora in un cantiene. È un problema di cultura, ancora una volta. Ma sulle spiaggie, sugli arenili dove ancora c’è chi muore perché si butta in acqua subito dopo aver mangiato e magari dove aver bevuto una bella bibita ghiacciata? Oh, ma quelle sono precauzioni per ragazzini. Noi adulti abbiamo lo stomaco di ferro. Tutti machi, in spiaggia. E ai giardinetti pubblici? Sulle piste di pattinaggio? Ci fosse una mamma o un papà che fanno mettere le protezioni ai loro figli quando pattinano. Lo sapete vero che in certi Paesi sono obbligatorie per tutti, adulti compresi? «Ma figuriamoci se mia figlia si mette il caschetto per pattinare! È così brava, sapete!»

Ma torniamo alla prevenzione. Entriamo in una casa, una qualunque. Quante sostanze tossiche ci sono in giro? Detersivi, acidi, solventi. Tutti spesso a portata dei più piccoli. E il ferro da stiro caldo lasciato dove gioca il bambino? E le prolunghe fatte a mano da chi non sa neppure cos’è la "massa", o "messa a terra"? Le nostre case sono spesso, per i più piccoli, veri e propri ambienti a rischio. A volte è la stessa casa ad essere a rischio. Se andate a farvi una gita per la Sicilia o la Calabria vedrete intere cittadine costruite abusivamente. Non solo gli impianti sono spesso del tutto fuori regola, ma a volte le case sono state costruite ai piedi di erte disboscate o in zone non sicure sul piano ambientale. Poi arrivano le pioggie e mezzo paese viene sommerso dal fango. Qui non c’è malafede, perché i primi a rimetterci la vita sono proprio coloro che in quella situazione ci si sono messi. E allora? Ignoranza. E se lo fai notare ti becchi il classico «ma figurati se succede» o «cose del genere da noi non accadono». Insomma, come al solito si pensa sempre che debba accadere agli altri e, se accade, è fatalità. Al più è colpa del Governo.

Non che i governi non abbiano le loro colpe, ovviamente, ma non perché siano più in malafede di altri, ma perché, come in ogni buona democrazia, ci rappresentano perfettamente: un popolo ignorante quale Governo si pensa potrebbe eleggere? Ignorante, ovviamente. E puntualmente accade. Altro che Centrodestra e Centrosinistra! Qui è il problema è la scolarizzazione. D’altra parte molti dei nostri politici non riescono a dire due parole in pubblico senza commettere almeno quattro errori di grammatica. Specialmente se non possono leggere il classico fogliettino. E comunque ci riescono anche con quello. Per non parlare di quando provano a pronunciare qualche parola straniera. Come dice spesso un mio amico, «stendiamo una pietosa mutanda».

Certo, la malafede c’è, negli imprenditori, nei costruttori edili, in decine di personaggi diversi che su certe "mancanze" ci si arricchiscono, ma affermare che è solo colpa loro, che basta fare una legge più severa per punirli, è ancora una volta solo e soltanto ipocrisia. E poi, le leggi, come le dovremmo fare applicare? Dov’è quell’esercito di ispettori e controllori che dovrebbe verificare che ogni cantiere, fabbrica e ufficio sia in regola? E poi, che cosa vuol dire essere in regola? Non bastano i presidi, non basta far sì che ogni macchinario, ogni ambiente sia costruito a norma. Il vero problema sono le persone.

Quante sono le aziende dove regolarmente si fanno prove di evacuazione degli edifici? Quanti gli uffici dove ogni impiegato sa esattamente cosa deve fare in caso di incendio o terremoto? Se iniziamo proprio da quelli pubblici la risposta è sconfrortante. D’altra parte, i primi ad alzare la voce quando si ripresenta il triste fatto di cronaca in cui uno, due o più operai ci lasciano la pelle a causa di un infortunio sul lavoro, sono proprio i sindacati. Ma non era il cantiere dove si stava costruendo il nuovo edificio della CGIL quello in cui le norme sulla sicurezza non venivano rispettate? Maggio 2008, per chi ha poca memoria. E l’appalto era stato dato alla Lega Coop. Ipocrisia. Di nuovo. Che altro?

Ipocrisia dei politici, dall’ultimo dei deputati al Presidente della Repubblica. Perché basta farsi una passeggiata per una qualsiasi città italiana per riscontrare violazioni di ogni tipo. Dalle uscite d’emergenza del supermercato bloccate da un muro di scatoloni o dal solito SUV nero parcheggiato proprio lì davanti, alla mancanza di rispetto delle regole nei cantieri, negli uffici, nelle fabbriche, persino nei negozi. E allora uno si chiede, ma tutti questi politici dove vivono? Sicuramente su un altro pianeta perché evidentemente per le nostre strade non ci passeggiano mai. Ma forse, passando velocemente da un palazzo all’altro con la loro bella automobilina blu, non fanno in tempo a notare tutte queste violazioni. E la polizia? I vigili? I magistrati? Vanno mai a piedi i magistrati? E quando entrando in un negozio o passando vicino a un cantiere si rendono conto che qualcosa non va, che non si seguono le regole, che fanno? Poverini, è che hanno altre cose da fare, altre responsabilità. E poi, che potrà mai accadere?

Mancanza di cultura. Mancanza di cultura e ipocrisia. Un binomio spaventoso. L’ignoranza uccide, l’ipocrisia fa sì che possa continuare a farlo. E allora, concludendo, ogni volta che un operaio muore schiacciato da un macchinario, che uno sfortunato avventore finisce in ospedale per aver bevuto della candeggina in un bar, che un bambino casca dal balconcino al secondo piano di uno stabile, che una ragazzina si spacca la testa sul bordo di un marciapiede perché il casco, non fissato sotto il mento, salta via come tocca l’asfalto, i colpevoli non vanno ricercati solo fra coloro che ufficialmente avevano precise responsabilità in merito: la colpa è di ognuno di noi. Ognuno. Perché questo è il vero problema. Noi italiani siamo talmente "ganzi", bravi, in gamba, che a noi queste precauzioni non servono. Che siano altri Stati a preoccuparsene. Noi sappiamo quello che facciamo, almeno finché non succede qualcosa e qualcuno ci lascia la pelle. Allora è la caccia alle streghe, che, inutile dirlo, sono sempre "gli altri".

Comments (2) to «Ipocrisie: la prevenzione»

  1. zialaura says:

    Sì sono d’accordo. c’è individualismo. c’è ipocrisia. manca la cultura della prevenzione. detto questo per evitare di dare colpe sempre “ad altri”. proviamo a fare qualcosa noi. la nostra iniziativa ha l’obiettivo di mettere in moto “un masso”. scrivere al ministro Sacconi non sposta il problema di un millimetro. ma può servire. come parlare di prevenzione agli operai. ai sindacati… senza sempre aspettare che “altri” si muovano. mi sono rotta di postare ogni giorni morti di lavoro. di autorità che piangono..dell’ipocrisia insomma. notte e alla prossima 🙂

  2. Scrivere a mio avviso potrebbe servire, ma si dovrebbe provare a fare delle proposte concrete e questo è sempre molto difficile. Generalmente, quando si propone qualcosa ma non si ha la responsabilità di attuare la proposta, si sottovalutano se non si ignorano del tutto diversi fattori, primi fra tutti quelli economici, in seconda battuta quelli umani, oltre che si tende a non esaminare in modo approfondito i possibili effetti collaterali della soluzione proposta.

    Trovare una soluzione a un qualsiasi problema è allo stesso tempo un’arte e una scienza ed esistono metodologie ben definite per farlo. La fattibilità di una proposta è importante quanto e più della proposta stessa. In questi mesi di proposte in televisione ne ho sentite tante da parte di partiti, sindacati, giornalisti, ma erano solo idee. Ora un’idea potrà anche essere o apparire buona, ma deve prima passare il banco di prova della fattibilità.

    Affermazioni come la vita umana non ha prezzo e quindi qualunque cosa costi realizzare un’idea ne vale comunque la pena, inoltre, potranno anche sembrare ragionevoli, ma non lo sono, semplicemente perché la quantità di denaro in qualunque sistema economico è limitata e spendere senza criterio anche per un’iniziativa lodevole vuol dire poter realizzare meno iniziative, e farlo rappresenta quindi comunque un serio danno sociale.

    Ecco allora che dovremmo fare un’analisi approfondita delle cause prime dell’elevata mortalità sul lavoro e nelle case in Italia, non per cercare i colpevoli ma per individuare le cause reali del problema. Un incidente avviene sempre per il realizzarsi di una serie di concause specifiche e singolarmente prevenibili, come conosce bene chi opera nel campo dell’avionica. Tuttavia, nel campo della prevenzione esistono sempre alcune cause legate a fattori umani che affondano le loro radici nella cultura e nell’organizzazione. Sono queste che vanno individuate ed affrontate, in primis.

    La nostra società è fortemente colpevolista, tanto che in italiano il termine responsabilità ha assunto l’accezione prevalentemente negativa di colpa piuttosto che di consapevolezza dei propri doveri nei confronti della gestione di qualcosa. Inoltre quando qualcosa non funziona ci aspettiamo sempre che il problema lo risolva qualcun altro, anche quando lo abbiamo causato noi, primo fra tutti il Governo.

    Parlare è facile, scrivere un po’ meno, proporre ancora meno, ma fare, fare qualcosa di concreto, è oggettivamente difficile e dovrebbe richiedere il contributo di tutti. Fare, però, non parlare.

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