Gabriele Lavia e «Dopo la prova»



Gabriele Lavia e «Dopo la prova»
di Marinella Saiu

Dopo «Scene da un matrimonio», Gabriele Lavia torna ad interpretare e ad adattare un testo di Bergman: «Dopo la prova». Attratto dalla complessa personalità artistica del regista svedese, Lavia mette in scena un testo tratto dal film che Bergman realizzò nel 1983, una pellicola densa di accenti autobiografici. Un anziano regista s’addormenta sul palcoscenico dove si è da poco conclusa una prova de «Il sogno» di Strindberg, nel sonno gli appaiono la giovane attrice (Federica Bonani) protagonista dello spettacolo e la madre (Raffaella Azim) di lei, morta suicida, interprete in passato del medesimo ruolo. Tra sogno o realtà emerge la storia disperata che lega i tre personaggi e il racconto del teatro, come metafora del mondo, al quale il regista Henrik Vogler (Lavia) ha sacrificato la vita: un omaggio al teatro, una dichiarazione d’amore a un mestiere.

Non è la prima volta che lei propone testi di Bergman. Cosa la affascina del grande regista svedese?

Lo ritengo il più grande autore del nostro tempo: non ho mai trovato testi contemporanei che affrontino i temi dei rapporti fra gli uomini, così semplici e così profondi, come ha fatto Bergman: senza nessun pudore. Mi piace la violenza, l’impudicizia e l’assoluta sincerità nel raccontarsi e nel raccontare i rapporti tra uomini e donne che evidentemente appartengono alla sfera del suo vissuto, ma sono comuni a tutti.

Non ha avuto timore che nella trasposizione teatrale di «Dopo la prova» si perdesse qualcosa?

In effetti accade quasi sempre che la messa in scena di un film ci rimetta, ma non è questo il caso, forse perché l’ascendenza teatrale del regista svedese è forte, violenta e presente anche in tutte le sue opere cinematografiche. Curiosamente ho verificato che le sceneggiature di Bergman, che sullo schermo a volte risultano un po’ incomprensibili e cupe, funzionano di più in palcoscenico e possono diventare addirittura ironiche.

Come nasce un suo spettacolo?

Parlandone: o con qualcuno o da solo in macchina. Creo i miei spettacoli raccontandoli e recitandoli, così mi vengono le idee. Anche Strehler aveva questo metodo: alle prove parlava sempre lui, in continuazione, e non si provava mai, finché non arrivava la folgorazione: con le parole buttava giù idee come se scrivesse o pigliasse appunti o facesse degli schizzi. Mentre leggo un testo non mi viene nessuna idea, prendo solo informazioni. Fortunatamente ho una buona memoria e quel che ho letto mi accompagna sempre: in macchina, al bar, camminando per la strada. Finché non arriva l’idea giusta. Così è avvenuto con «Dopo la prova»: l’operazione fatta sul testo della sceneggiatura è talmente violenta e radicale e individuale da non poter riconoscere il film.

«Dopo la prova» è stato considerato il testamento spirituale di Bergman, anche per i tratti autobiografici che l’autore ha inserito con grande sincerità. Nel suo adattamento possiamo dire, quindi, di trovare le paure, la fede, le idee sul teatro di Gabriele Lavia?

Certamente. Non avrei potuto chiedere a me stesso di interpretare il ruolo di un regista, Bergman, che non conosco. Io conosco me stesso, e anche parzialmente. È un equivoco dei non professionisti non riconoscere che un attore fa solo un ruolo: se stesso. Si mette un costume un po’ diverso ma è sempre lui, non può essere che così.

E i personaggi?

Non esistono. Chi è Amleto? Dov’è? Che faccia ha? Come si muove? Quali sono i suoi pensieri quando non parla? Non esistono i personaggi, esiste soltanto l’attore che ripete le parole di un copione. Ma il pensiero e il sentimento e il mondo affettivo e il mondo oscuro che ci sono sotto le parole di Shakespeare, di Goethe o di Cecov o di Ibsen, sono il mondo oscuro e affettivo dell’attore. In questo spettacolo ho portato questa mia convinzione assoluta, la mia posizione filosofica: ho raccontato me stesso attraverso le parole di Bergman e senza le sue parole io non avrei mai rappresentato questo mondo. E non ho avuto timore di modificare il testo di Bergman, ci sono zone intere che non sono nel testo e che appartengono a me. Questo è un modo profondo di essere fedeli, ma non alle parole: le parole sono fatte di vento. Socrate non ha mai scritto nulla perché sosteneva che le parole sono menzogna mentre l’emissione della parola è la verità. Meno male che c’è stato Platone che ci ha fatto conoscere qualcosa di questo signore.

Sul palcoscenico vediamo, quindi, il mondo oscuro di Lavia?

Ci sono le mie paure e incertezze come ci sono quelle della Bonani e della Azim. Le ho tormentate perché riuscissero a tirare fuori ciò che apparteneva a loro non perché dicessero le cose mie. Quando un attore non è autentico si percepisce. Si possono recitare idee e modi altrui, ma la condizione per "esserci", sul palcoscenico, è l’autenticità e quindi l’originalità e l’unicità. Quando mi capita di vedere degli spettacoli in cui recitano tutti allo stesso modo mi viene una grande tristezza e malinconia. Forse sono anche belli, forse piaceranno, forse avranno critiche splendide, ma c’è un profondo equivoco di carattere filosofico. La filosofia deve ricercare una qualche verità, magari per non trovarla, e in teatro l’unica verità che si può ricercare è l’uomo. Ma quale uomo? Non con la "U" maiuscola bensì quello con la "u" minuscola. Più la "u" è minuscola, maggiore è la possibilità di contatto con gli altri uomini con la "u" minuscola, gli spettatori, per riuscire, forse, a rappresentare un uomo con la "U" maiuscola.

Bergman racconta con estrema accuratezza il malessere, il disagio verso il mondo che è dentro di noi, ma del quale spesso non siamo consapevoli. Quanto spazio occupa la ricerca della consapevolezza nella sua vita?

Tutta la mia vita. Io ho avuto l’occasione di praticare un mestiere che da ragazzi non si capisce cosa sia e soltanto con il passare degli anni se ne afferra il senso. E per affinare le armi sono stato costretto a fare una ricerca dentro di me, a guardare dentro i miei ricordi, le mie memorie. Nel nostro lavoro non esiste un modo per "fare" la gioia, il dolore, l’ira, la rabbia, sentimenti che si possono soltanto imitare: un bravo attore riesce ad interpretarli ricreando dentro di sé la memoria di quell’emozione. Quando un attore recita non prova "veramente" quei sentimenti, ma porta in scena la "vera" memoria di uno stato d’animo che gli appartiene, attraverso un procedimento interno che spesso mette allo scoperto parti di se stesso che non conosceva. Io sono arrivato molto indietro con la mia memoria, non con il mio ricordo che è altra cosa. Ma lei parlava di consapevolezza… la mia è arrivata fino a un certo punto, al resto non ci sono ancora arrivato e forse non ci arriverò mai.

Lei si riferisce a una consapevolezza che deriva dal mestiere. E chi non è un attore?

Noi viviamo in un’epoca dominata dalla cultura e dall’uomo di massa. Non esistono quasi più gli individui che vivono il tempo libero, il tempo della libertà. L’uomo massa, che non è in grado di scegliere né di giudicare né di compiere un gesto autonomo, ha soltanto tempo vuoto da riempire e glielo occupano come vogliono. Ci sono, però, delle vite e delle esistenze particolari che proprio per la loro essenza sfuggono alla consuetudine di questo tipo di società. Il teatro offre la possibilità di rimanerne fuori. Quando uno si chiude in teatro a provare non sa nemmeno cosa stia succedendo nel mondo, non ne ha il tempo, e un giorno esce e scopre che è scoppiata la guerra. Stanislawski racconta che uscendo all’alba dal teatro, dopo aver provato uno spettacolo tutta la notte, lui e i suoi attori sentivano dei colpi di mortaio: era la rivoluzione di cui erano totalmente all’oscuro, chiusi nel loro teatro d’arte di Mosca.

Secondo lei, è così per tutti i teatranti?

No, è un mestiere troppo difficile. Io mi riferisco soltanto all’attore consapevole: gli altri sono dei commedianti che esercitano un mestiere. Come non tutti i musicisti fanno musica e non tutti gli scultori fanno scultura, non tutti gli attori fanno teatro. E non è detto che il teatro o la scultura piacciano o abbiano successo. Il teatro non è gradevole, gradevole è il musical, che è bellissimo, straordinario, ma è un’altra cosa.

E il teatro?

In questo paese non si parla mai di teatro se non per polemiche di carattere politico. Il teatro non interessa, ma questa è anche la sua grande salvezza. Il teatro non appassiona la massa, abituata a consumare in un circolo che si ripete: ingoiare e defecare. Ma lei non vede che la gente guarda solo delle cose orrende? Se è vero l’Auditel… Le cose belle non incontrano facilmente il consenso del pubblico, altrimenti non dovrebbero più produrre le fiction: io non riesco a vederne più di due minuti, ne resto inorridito. Poi vengo a sapere che hanno ascolti altissimi e allora mi dico che c’è qualcosa di marcio.

Lei, come il protagonista del suo spettacolo, ha dedicato la vita al palcoscenico. E Lavia, come Henrik Vogler, pensa che il teatro potrebbe consumare la sua forza creatrice?

Il teatro consuma la forza creatrice: io non ho più la stessa fantasia che avevo da ragazzo. Semmai ho più tecnica, più mestiere. Con il tempo l’interesse si restringe sempre di più: da ragazzo andavo in libreria e compravo tanti libri, anche quelli che non avrei mai letto. Ora guardo tutti i libri, ma prendo soltanto quei pochi che potrò leggere. Con l’età l’angolo della visuale si restringe e davanti si vede la fine. Si può sperare che sia lontana e di arrivarci il più tardi possibile, ma a sessant’anni la linea d’arrivo è visibile.

E quanto ci si sente soli?

La solitudine è una condizione, è una qualità dello spirito umano. Io conosco la scena primaria della mia solitudine: ero un bambino. Nella mia vita sono circondato da molte persone, ma questo non significa che io non sia una persona profondamente sola. E non credo di essere unico.

Ne ha paura?

Sì, ne ho paura. Ma perché non dobbiamo avere paura? Qual è quell’uomo che non teme nulla? Un cretino. Tutti ne abbiamo una paura fottuta, invece una sana coltivazione della propria solitudine non guasterebbe. La mania di stare tutti insieme è diventata una moda: a un certo punto bisognava uscire e improvvisamente le strade si sono riempite. Preferivo quando c’era una maggiore discrezione e una sana manifestazione della propria solitudine.

La solitudine è figlia dell’incomunicabilità?

L’incomunicabilità è un dato di fatto, nessuno riesce a comunicare. La parola è una menzogna. La parola non riesce a comunicare niente. Se lei mi dice: «Ho fame!» e io rispondo: «Pollo arrosto.», lei rimane con la fame. Quindi vuol dire che la parola è nulla, non serve. Nemmeno a confortare.

E il gesto?

Quello sì. A volte toccare è più importante di una parola, una carezza è più importante di un sermone. Guarda caso Madre Teresa di Calcutta girava tra suoi moribondi dandogli delle grandi manate, toccandoli dappertutto.

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